Ai tempi della primissima Pune, quando non esisteva ancora un vero e proprio ashram, Osho consigliava ai suoi discepoli di sperimentare, a livello individuale, ritiri in silenzio e tecniche di meditazione insolite, quali quella antica e potente del tratak, e utilizzava, con un numero ancora molto ristretto di persone, metodi tradizionali intensi e “dirompenti” come lo shaktipat (trasmissione di energia)... ecco una vivace cronaca di quei giorni nei ricordi di Krishna Prem
1974 Lonavla e Pune
Davanti allo specchio
Senza mai chiudere gli occhi, siedo davanti allo specchio illuminato da una candela, il mio volto riflesso che ondeggia, mutevole, rivelando facce, parvenze. E d’un tratto lo specchio è vuoto! Il volto che stavo osservando è sparito. Sto fissando il vuoto! Tengo gli occhi aperti per pura forza di volontà. Il corpo comincia a tremare, il cuore mi batte all’impazzata, il sudore mi scende dalla fronte mescolandosi alle lacrime prodotte dai miei occhi doloranti. Ma in un angolo imprecisato dentro di me si risveglia un ricordo: Osho che descrive questa tecnica, il tratak, e parla dello specchio che alla fine diventa vuoto. Esorta, una volta arrivati a questo punto, a non distogliere lo sguardo, a perseverare. E dice che sarebbero affiorati volti appartenenti a vite passate.
E succede in un istante. Nello specchio riappare un volto. Non è il mio, eppure sono io. I tratti del viso sono differenti – la forma degli occhi, il taglio della mascella – ma contengono anche un’inequivocabile qualità di me. Poi sparisce, solo per lasciare il posto al successivo. E prende il via il turbine. Appare un volto, riempiendo lo specchio per un istante, poi scolora, dissolvendosi in un altro. Sopracciglia che si assottigliano e si inarcano, poi si infoltiscono, pesanti sulla fronte. Attaccature dei capelli ora basse, ora alte. Barbe che si accorciano, poi si allungano. Occhi ora spalancati, ora ridotti a piccolissime fessure. Infine resta solo un volto, costante, a osservarmi dallo specchio. Un viso ovale, più vecchio del mio, dagli zigomi alti e la fronte liscia e piatta. La barba incolta e brizzolata che nasconde la bocca; gli occhi di un marrone orientale, liquido e profondo. Tibetano. Per qualche ragione il viso sembra tibetano. Immobili, riflettiamo l’uno il viso dell’altro, i nostri sguardi incollati.
Poi, ancora una volta, per una minima frazione di secondo, lo specchio torna a essere vuoto. E un attimo dopo guardo dritto negli occhi di un lupo che ringhia! I miei occhi si chiudono bruscamente. E rimango seduto lì, nella mia oscurità interiore, tremante.
Un me oltre me
Quando l’alba si inoltra lentamente sul pavimento di pietra il mattino seguente, il mio quattordicesimo di silenzio sulle colline di Lonavla (non lontano da Pune), ancora una volta all’hotel Tulsi Sadhana Kutir, sono già sveglio e fisso il soffitto. L’esperienza della notte scorsa mi ha turbato, risvegliando qualcosa di antico e dimenticato. Qualche ricordo passato è stato scosso dal suo torpore e mi tormenta, ma inutilmente poiché non ho alcuna abilità di riportarlo alla memoria. La mia mente coglie che lo specchio vuoto è l’intervallo, come quello tra l’acqua allo stato liquido e il ghiaccio, tra la crisalide e la farfalla. Attraverso il tratak sono piombato nel profondo dei recessi di un me che va oltre il me che conosco. Mentre faccio i bagagli per prendere il treno delle sette diretto a Pune rifletto sull’accaduto. Non riesco a comprenderlo, ma non posso negare di averlo vissuto: la notte scorsa ho assistito a altre reincarnazioni. Su questo non c’è dubbio. Posso vedere il filo, la linea temporale che cammina da una vita all’altra. C’è qualcosa di continuo che lega il qui ad altri luoghi, il tempo di adesso ad altri tempi, ed è tenuto nascosto dai vincoli della carne e da ciò che percepiamo come tempo.
Incontrare gli amici
Divy e Rani, appena tornati da Goa, sono già davanti al cancello d’entrata, quando arrivo con il rickshaw che ho preso alla stazione. Quattro braccia amorevoli mi avvolgono.
“Stai magnificamente!” grida Rani, esagerando come al solito. Divy si limita ad abbracciarmi forte, ridendomi sulla spalla. Avevo loro scritto che quando ero andato a Lonavla per il mio silenzio, Osho mi aveva suggerito di tornare a Pune quella domenica per una shaktipat che avrebbe condotto lui stesso. È oggi. Divy e Rani hanno programmato il loro arrivo appositamente per incontrarmi.
Vedo anche due dozzine o giù di lì di sannyasin raggruppati davanti al cancello in questa mattina d’aprile. Teertha e Vishnu, Prageet e Virag e altri mi danno il benvenuto... ci abbracciamo, felici di ritrovarci.
“Venite. Osho è pronto”, annuncia una voce dietro di me, inequivocabilmente mediterranea: Mukta. Ci conduce lungo il vialetto in ghiaia e intorno al retro della casa fino a un piccolo patio a mosaico di forma semicircolare. Al centro, accostata alla parete, c’è una poltrona vuota. A destra c’è una porta che conduce all’interno della casa. Dopo qualche attimo la porta si apre e Osho è lì in piedi con le mani giunte in namastè. Laxmi e Vivek lo seguono, sedendosi come al solito accanto a lui sul pavimento.
Shaktipat
Aveva spiegato la tecnica a un darshan due settimane prima: “Quando il maestro vuole aiutarvi” aveva detto “se ripulite il vostro canale energetico, il vostro passaggio, nel caso fosse bloccato, potrà semplicemente possedervi. Scenderà semplicemente in voi e la sua energia, che è di una qualità superiore, più pura, illimitata, passerà nei vostri canali energetici. Questi si apriranno e a quel punto la vostra energia potrà muoversi in loro più agevolmente. Tutta l’arte dello shaktipat consiste in questo”.
Si appoggia allo schienale della poltrona e ripiegando le mani in grembo ci osserva per un attimo. “Alzatevi tutti in piedi e sollevate le braccia in aria”.
Avendo ricevuto istruzione di portare un fiore con noi, così abbiamo fatto, e ora stiamo in piedi con le braccia distese, un fiore ciascuno nelle mani chiuse a coppa.
“Ora” dice “proiettate il vostro ego nel fiore”.
Cerco di gettare me nel fiore, di focalizzare la mia mente, la mia personalità, il mio ego, tutto ciò che conosco come “me”, nella calendula che ho in mano. E d’un tratto, non appena Osho chiude gli occhi, sono posseduto da un grande sussulto e il mio corpo comincia a tremare in maniera incontrollabile. Una corrente mi attraversa, dirigendosi verso l’alto e assestandosi nelle braccia. I palmi delle mani sono infuocati e il minuscolo fiore trema.
“Lasciatelo andare!” annuncia Osho. Non appena i fiori-ego raggiungono il pavimento l’aria si riempie di urla e grida catartici, assordanti quanto le meditazioni mattutine che facevamo di fronte a lui a Mount Abu. A Kaylash e a Goa avevo dimenticato che differenza potesse comportare la presenza del maestro. Questo shaktipat, questa pulizia, è un bagno di fuoco. Prosegue incessantemente facendosi via via più rumoroso, più intenso, eppure – a livello quasi insopportabile – senza mai giungere al culmine.
“Stop!”. La voce di Osho affonda nel caos come una spada. Ci fermiamo immobili, come fossimo un tutt’uno. È un oceano interiore. È il silenzio, la purezza e il mistero dello spazio...
Tratto dal libro di Jack Allanach (Swami Krishna Prem) Osho, India and Me, A Tale of Sexual and Spiritual Transformation
Davanti allo specchio
Senza mai chiudere gli occhi, siedo davanti allo specchio illuminato da una candela, il mio volto riflesso che ondeggia, mutevole, rivelando facce, parvenze. E d’un tratto lo specchio è vuoto! Il volto che stavo osservando è sparito. Sto fissando il vuoto! Tengo gli occhi aperti per pura forza di volontà. Il corpo comincia a tremare, il cuore mi batte all’impazzata, il sudore mi scende dalla fronte mescolandosi alle lacrime prodotte dai miei occhi doloranti. Ma in un angolo imprecisato dentro di me si risveglia un ricordo: Osho che descrive questa tecnica, il tratak, e parla dello specchio che alla fine diventa vuoto. Esorta, una volta arrivati a questo punto, a non distogliere lo sguardo, a perseverare. E dice che sarebbero affiorati volti appartenenti a vite passate.
E succede in un istante. Nello specchio riappare un volto. Non è il mio, eppure sono io. I tratti del viso sono differenti – la forma degli occhi, il taglio della mascella – ma contengono anche un’inequivocabile qualità di me. Poi sparisce, solo per lasciare il posto al successivo. E prende il via il turbine. Appare un volto, riempiendo lo specchio per un istante, poi scolora, dissolvendosi in un altro. Sopracciglia che si assottigliano e si inarcano, poi si infoltiscono, pesanti sulla fronte. Attaccature dei capelli ora basse, ora alte. Barbe che si accorciano, poi si allungano. Occhi ora spalancati, ora ridotti a piccolissime fessure. Infine resta solo un volto, costante, a osservarmi dallo specchio. Un viso ovale, più vecchio del mio, dagli zigomi alti e la fronte liscia e piatta. La barba incolta e brizzolata che nasconde la bocca; gli occhi di un marrone orientale, liquido e profondo. Tibetano. Per qualche ragione il viso sembra tibetano. Immobili, riflettiamo l’uno il viso dell’altro, i nostri sguardi incollati.
Poi, ancora una volta, per una minima frazione di secondo, lo specchio torna a essere vuoto. E un attimo dopo guardo dritto negli occhi di un lupo che ringhia! I miei occhi si chiudono bruscamente. E rimango seduto lì, nella mia oscurità interiore, tremante.
Un me oltre me
Quando l’alba si inoltra lentamente sul pavimento di pietra il mattino seguente, il mio quattordicesimo di silenzio sulle colline di Lonavla (non lontano da Pune), ancora una volta all’hotel Tulsi Sadhana Kutir, sono già sveglio e fisso il soffitto. L’esperienza della notte scorsa mi ha turbato, risvegliando qualcosa di antico e dimenticato. Qualche ricordo passato è stato scosso dal suo torpore e mi tormenta, ma inutilmente poiché non ho alcuna abilità di riportarlo alla memoria. La mia mente coglie che lo specchio vuoto è l’intervallo, come quello tra l’acqua allo stato liquido e il ghiaccio, tra la crisalide e la farfalla. Attraverso il tratak sono piombato nel profondo dei recessi di un me che va oltre il me che conosco. Mentre faccio i bagagli per prendere il treno delle sette diretto a Pune rifletto sull’accaduto. Non riesco a comprenderlo, ma non posso negare di averlo vissuto: la notte scorsa ho assistito a altre reincarnazioni. Su questo non c’è dubbio. Posso vedere il filo, la linea temporale che cammina da una vita all’altra. C’è qualcosa di continuo che lega il qui ad altri luoghi, il tempo di adesso ad altri tempi, ed è tenuto nascosto dai vincoli della carne e da ciò che percepiamo come tempo.
Incontrare gli amici
Divy e Rani, appena tornati da Goa, sono già davanti al cancello d’entrata, quando arrivo con il rickshaw che ho preso alla stazione. Quattro braccia amorevoli mi avvolgono.
“Stai magnificamente!” grida Rani, esagerando come al solito. Divy si limita ad abbracciarmi forte, ridendomi sulla spalla. Avevo loro scritto che quando ero andato a Lonavla per il mio silenzio, Osho mi aveva suggerito di tornare a Pune quella domenica per una shaktipat che avrebbe condotto lui stesso. È oggi. Divy e Rani hanno programmato il loro arrivo appositamente per incontrarmi.
Vedo anche due dozzine o giù di lì di sannyasin raggruppati davanti al cancello in questa mattina d’aprile. Teertha e Vishnu, Prageet e Virag e altri mi danno il benvenuto... ci abbracciamo, felici di ritrovarci.
“Venite. Osho è pronto”, annuncia una voce dietro di me, inequivocabilmente mediterranea: Mukta. Ci conduce lungo il vialetto in ghiaia e intorno al retro della casa fino a un piccolo patio a mosaico di forma semicircolare. Al centro, accostata alla parete, c’è una poltrona vuota. A destra c’è una porta che conduce all’interno della casa. Dopo qualche attimo la porta si apre e Osho è lì in piedi con le mani giunte in namastè. Laxmi e Vivek lo seguono, sedendosi come al solito accanto a lui sul pavimento.
Shaktipat
Aveva spiegato la tecnica a un darshan due settimane prima: “Quando il maestro vuole aiutarvi” aveva detto “se ripulite il vostro canale energetico, il vostro passaggio, nel caso fosse bloccato, potrà semplicemente possedervi. Scenderà semplicemente in voi e la sua energia, che è di una qualità superiore, più pura, illimitata, passerà nei vostri canali energetici. Questi si apriranno e a quel punto la vostra energia potrà muoversi in loro più agevolmente. Tutta l’arte dello shaktipat consiste in questo”.
Si appoggia allo schienale della poltrona e ripiegando le mani in grembo ci osserva per un attimo. “Alzatevi tutti in piedi e sollevate le braccia in aria”.
Avendo ricevuto istruzione di portare un fiore con noi, così abbiamo fatto, e ora stiamo in piedi con le braccia distese, un fiore ciascuno nelle mani chiuse a coppa.
“Ora” dice “proiettate il vostro ego nel fiore”.
Cerco di gettare me nel fiore, di focalizzare la mia mente, la mia personalità, il mio ego, tutto ciò che conosco come “me”, nella calendula che ho in mano. E d’un tratto, non appena Osho chiude gli occhi, sono posseduto da un grande sussulto e il mio corpo comincia a tremare in maniera incontrollabile. Una corrente mi attraversa, dirigendosi verso l’alto e assestandosi nelle braccia. I palmi delle mani sono infuocati e il minuscolo fiore trema.
“Lasciatelo andare!” annuncia Osho. Non appena i fiori-ego raggiungono il pavimento l’aria si riempie di urla e grida catartici, assordanti quanto le meditazioni mattutine che facevamo di fronte a lui a Mount Abu. A Kaylash e a Goa avevo dimenticato che differenza potesse comportare la presenza del maestro. Questo shaktipat, questa pulizia, è un bagno di fuoco. Prosegue incessantemente facendosi via via più rumoroso, più intenso, eppure – a livello quasi insopportabile – senza mai giungere al culmine.
“Stop!”. La voce di Osho affonda nel caos come una spada. Ci fermiamo immobili, come fossimo un tutt’uno. È un oceano interiore. È il silenzio, la purezza e il mistero dello spazio...
Tratto dal libro di Jack Allanach (Swami Krishna Prem) Osho, India and Me, A Tale of Sexual and Spiritual Transformation
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