Il tempo non può tornare indietro, la mente sì. Che spreco: dare una mente così, incapace di dimenticare la minima cosa, ad un uomo che non solo è diventato una nonmente, ma che insegna anche agli altri ad abbandonare la mente.
Per ciò che riguarda la mia mente – ricordate: la mia mente, non me – è un semplice meccanismo, simile a quelli che usate qui. La mia “mente”, è semplicemente un meccanismo, ed è una macchina perfetta, data ad un uomo che vi ha rinunciato! Per questo dico che è uno spreco.
Ma ne conosco il motivo: se non hai una mente perfetta, non potrai mai avere l’intelligenza per rinunciare ad essa. La vita è piena di contraddizioni. Non è un male: rende la vita più interessante.
Non c’era motivo perché l’uomo e la donna fossero due entità separate; avrebbero potute assomigliare alle amebe: potete chiedere a Raj Bharti. L’ameba non è né maschio né femmina: è un essere indiviso. Assomiglia a Muktananda e a tutti gli altri idiotananda – i celibi – ma ha un modo tutto suo di riprodursi, creando guai per tutti i medici del mondo! Non fa che mangiare, ingrossandosi sempre di più, finché si divide in due. È un vero bramacharya, un vero celibe.
Uomo e donna avrebbero potuto essere una sola entità, come le amebe, ma in questo caso non ci sarebbe stata poesia alcuna, solo semplice riproduzione. Ovviamente non ci sarebbero stati neppure conflitti, nessun battibecco, nessun litigio; ma la poesia sorta in questo modo ha un valore tale da ricompensare ampiamente tutti i conflitti e i battibecchi e i litigi.
Proprio poco fa stavo di nuovo sentendo Noorjahan… “Quella fiducia che esisteva tra noi, forse tu l’hai scordata, io no. Un poco almeno la ricordo. Forse non ricordi affatto le parole che mi dicesti, ma il solo ricordo tiene viva in me la speranza. L’amore che esisteva tra noi …” Wo karar, “quell’amore”… karar è molto più intenso di quanto “amore” non possa tradurre, molto più ricco di passione. Sarebbe meglio tradurre “quella passione”, oppure “quell’amore appassionato”. E “wo rah mugh men our tuz mom thee – e il legame che esisteva tra noi…”
“Il legame…” solo ogni tanto, quando i cuori si aprono, esiste un collegamento, altrimenti la gente non è in comunione: comunica. Si parla, ma nessuno ascolta. Si fanno affari, ma tra la gente esiste il vuoto, non esiste un flusso gioioso. Wo rah, “quel legame”, e wok arar. Quell’amore appassionato… “forse tu lo hai scordato , ma io lo ricordo. Non posso scordare che una volta dicesti: ‘Sei la regina del mondo, la donna più bella’. Ora forse non riusciresti neppure a riconoscermi…”.
Le cose cambiano, l’amore cambia, i corpi cambiano: per sua natura l’esistenza è cambiamento, è un fluire. Io ascolto quel canto prima di entrare nel tuo studio medico, perché lo amo fin dall’infanzia. Penso che possa risvegliare in me qualche ricordo, e lo fa dicerto!
Ieri vi parlavo dell’incidente verificatosi tra me e quel monaco giainista. La storia non finì lì, perché il giorno dopo dovette tornare a mendicare il cibo alla casa di mio nonno.
Vi sarà difficile capire perché dovesse tornare, visto che se n’era andato tanto in collera. Vi devo spiegare quel contesto: un monaco giainista non può prendere il cibo da altri che non siano giainisti, e sfortunatamente per lui, noi eravamo la sola famiglia giainista in quel piccolo villaggio. Non poté andare a mendicare altrove, sebbene lo volesse: sarebbe stato contro la sua disciplina. Per cui, suo malgrado, dovette tornare.
Io e la mia Nani eravamo di sopra, e spiavamo dalla finestra, perché sapevamo che doveva tornare. La mia Nani mi disse: “Eccolo! Cosa gli chiederai, oggi?” Dissi: “Non lo so. Prima, lasciamo che almeno mangi, poi dovrà per forza parlare alla famiglia e a quanti si sono riuniti”, il sermone di ringraziamento è una tradizione… “e a quel punto non ti preoccupare: troverò qualcosa da chiedergli. Prima lasciamo che parli”.
Quando parlò fu molto attento e conciso, una cosa insolita. Ma che tu parli o che tu stia zitto, se qualcuno ti vuole porre domande, ci riesce sempre: può chiederti perché stai zitto! Il monaco parlò della bellezza dell’esistenza, pensando che forse non avrebbe creato problemi di nessun tipo, ma ne creò.
Mi alzai. La mia Nani rideva in fondo alla stanza, ancora posso sentire la sua risata. E gli chiesi: “Chi ha creato questo splendido universo?”
I giainisti non credono in Dio. Per una mente occidentale è difficile addirittura concepire una religione che non creda in Dio. Il giainismo è di gran lunga superiore al cristianesimo; per lo meno non crede in Dio, e nello Spirito Santo e in tutte le assurdità che ne conseguono. Il giainismo, credetelo o no, è una religione atea: essere atei e tuttavia religiosi sembra una contraddizione, una contraddizione in termini. Ma il giainismo è etica pura, pura moralità, priva di Dio. Per cui, quando chiesi al monaco: “Chi ha creato questa meraviglia?”, ovviamente, come mi aspettavo, rispose: “Nessuno”.
Era ciò che aspettavo. Per cui dissi: “Può tanta meraviglia essere stata creata da un nessuno?”
Ribatté: “Per favore non fraintendermi…”, questa volta era venuto più preparato, era più sveglio… “Non voglio dire che nessuno sia qualcuno”.
Ricordate la storia di “Alice dietro allo specchio”? La regina chiede a Alice: “Venendo qui hai incontrato qualcuno?”
Alice rispose: “Nessuno”.
La regina stupita disse: “È strano, nessuno sarebbe dovuto arrivare prima di te, ma non è ancora qui”.
Alice, proprio come una lady inglese, sorrise solo dentro di sé. Il volto rimase serio e disse: “Madame, nessuno è nessuno!”
La regina ribatté: “Certo, è inevitabile che nessuno sia nessuno, ma come mai tarda tanto? Sembra che nessuno cammini molto più lentamente di te”.
Per un momento Alice si scordò e disse: “Nessuno cammina più veloce di me!”
E la regina: “Allora la cosa è ancora più strana. Se nessuno cammina più veloce di te, perché mai non è ancora arrivato?”
Alice subito si ricordò del suo errore, ma era troppo tardi. Di nuovo ripeté: “Madame, per favore, ricordi che nessuno è nessuno”.
E la regina: “Lo so che nessuno è nessuno, ma come mai non è ancora arrivato?”
Dissi al monaco giainista: “Lo so che nessuno è nessuno ma tu hai parlato con tali elogi dell’esistenza da stupirmi: non ci si aspetta da un giainista parole come queste. Sembra che a causa dell’esperienza avuta ieri, tu abbia cambiato la tua tattica: puoi farlo, ma non puoi cambiare me. Ancora posso chiederti: se nessuno ha creato l’universo, come mai esso esiste?”
Si guardò intorno: tutti erano in silenzio, tranne la mia Nani che rideva senza ritegno. Il monaco mi chiese: “Tu lo sai?”
Risposi: “È sempre esistito, non era necessario che venisse ad esistere”. E posso confermare quell’affermazione dopo quarantacinque anni, dopo l’illuminazione e la nonilluminazione, dopo aver letto tantissimo e aver scordato ogni cosa, dopo aver conosciuto ciò che è e – scrivetelo in stampatello – AVERLO IGNORATO. Posso ancora ripetere la stessa cosa detta da quel bambino: l’universo è sempre esistito, non era necessario che venisse creato o che sorgesse dal nulla. Esiste semplicemente.
Il terzo giorno il monaco giainista non si fece più vivo. Fuggì dal nostro villaggio in quello successivo, dove viveva un’altra famiglia giainista. Ma devo ringraziare quel monaco: senza saperlo egli introdusse un bambino nel viaggio verso la verità.
Da allora, a quanta gente ho fatto la stessa domanda, trovandomi di fronte la stessa ignoranza: grandi pandit, grandi studiosi, grandi mahatma, adorati da migliaia di persone, ma nessuno riuscì mai a rispondere ad una semplice domanda, fatta da un bambino.
Di fatto, a nessuna domanda reale è mai stata data una risposta, e vi posso predire che a nessuna domanda reale verrà mai data una risposta, perché quando si arriva a porre una domanda reale, la sola risposta è il silenzio.
Non il silenzio da idiota di un pandit, di un monaco, o di un mahatma, ma il tuo stesso silenzio. Non il silenzio dell’altro, ma il silenzio che sorge in te. Non esiste altra risposta: e quel silenzio che cresce in te, è una risposta a te, e a coloro che si fonderanno nel tuo silenzio con amore; altrimenti non sarà mai una risposta ad altri che a te stesso.
Nel mondo sono esistite molte persone silenti che non sono state di nessun aiuto agli altri. I giainisti le chiamano arihanta, i buddhisti arhata, le parole hanno lo stesso significato. Le lingue sono leggermente diverse: una è prakrito, l’altra è pali. Sono lingue vicine, o meglio dire “imparentate”: arihanta,arhata, potete vederlo da soli che sono la stessa parola.
Sono esistiti arihanta e arhata, ma sebbene queste persone avessero trovato la risposta, non riuscirono a proclamarlo, e se non ne sei capace,, se non riesci a proclamarlo dai tetti delle case, la tua risposta non vale granché. È la risposta di una persona in una folla che straripa di domande: ben presto l’arihanta morirà, e con lui scompare il suo silenzio: è come se qualcuno scrivesse sull’acqua. Quando avrai finito, i segni tracciati non esisteranno più.
Il vero Maestro non solo sa, ma aiuta milioni a conoscere. Non ha una conoscenza privata, è aperta a tutti coloro che sono pronti a riceverla. Io ho conosciuto la risposta. La domanda me la sono portata dietro per migliaia di anni da un corpo all’altro, passando da un corpo all’altro, ma la risposta è accaduta ora per la prima volta. È accaduta solo perché ho interrogato senza requie, senza paura delle conseguenze.
Ricordo tutti questi incidenti solo per rendervi consapevoli che se non si chiede, e non si chiede a tutti con totalità, è difficile interrogare se stessi. Quando si viene buttati fuori da tutti, quando tutte le porte vi vengono chiuse, sbattute in faccia, allora alla fine ci si rivolge al proprio essere interiore, e lì si trova la risposta.
Non è scritta: non troverete una Bibbia, una Torah, un Corano, una Gita, un Tao Te Ching o un Dhammapada… no, non troverete nula di scritto.
Né ci troverete qualcuno: nessun Dio, nessuna figura paterna, che vi sorrida e vi dia qualche pacca d’incoraggiamento: “Bene, figlio mio, sei tornato a casa. Io ti perdono tutti i tuoi peccati!”. No, non ci troverai nessuno… ciò che troverai è un silenzio tremendo, travolgente, così denso che hai la sensazione di poterlo toccare… come fosse una bellissima donna. Hai la sensazione che sia una donna meravigliosa, ed è solo silenzio, ma tangibilissimo.
Quando il monaco scomparve dal villaggio, per giorni e giorni ne ridemmo, soprattutto io e la mia Nani. Non posso credere quanto fosse bambina! A quell’epoca doveva avere circa cinquant’anni, ma nello spirito sembrava che non avesse mai lasciato la sua infanzia. Rideva con me e ripeteva: “Sei stato bravissimo”.
Ancora posso vedere le spalle del monaco in fuga. I monaci giainisti non sono belli. Non possono esserlo, tutto il loro atteggiamento è orribile, semplicemente orribile. Perfino le sue spalle erano brutte. Ho sempre amato il bello, ovunque si trovi: nelle stelle, nel corpo umano, , nei fiori, nel volo di un uccello… ovunque. Io adoro il bello senza vergogna, perché non vedo come si possa conoscere la verità senza amare il bello.
La bellezza è la via che conduce al vero, e la via e la meta non sono diverse: la via stessa alla fine diventa la meta. Il primo passo è anche l’ultimo.
Quell’incontro, la parola è proprio questa… quell’incontro con quel mistico giainista diede il via a migliaia di altri incontri con giainisti, hindu, mussulmani, cristiani, ed ero sempre disposto a tutto per una bella disputa.
Non mi crederete, ma a ventisette anni mi feci circoncidere – ero già illuminato – solo per entrare in un ordine Sufi mussulmano, perché altrimenti non mi avrebbero ammesso. Dissi: “Bene, allora circoncidetemi! In ogni caso , questo corpo sarà distrutto, e voi non fate che tagliare un pezzetto di pelle: tagliatelo, ma io voglio entrare nella vostra scuola!”
Persino loro non riuscivano a credermi. Dissi: “Credetemi, sono pronto…”, e quando iniziai a discutere, dissero: “Eri pronto a lasciarti circoncidere, tuttavia non sei pronto ad accettare nulla di ciò che diciamo?”
Ribattei: “Sono fatto così. Su ciò che non è essenziale, sono sempre pronto a dire di sì; su ciò che è essenziale sono assolutamente inflessibile. Nessuno potrà mai costringermi a dire di sì”.
Naturalmente, dovettero espellermi dal loro cosiddetto ordine Sufi, ma dissi loro: “Espellendomi, non fate che dichiarare al mondo che siete dei falsi Sufi. Il solo vero Sufi è stato espulso. Anzi: sono io che espello tutti voi!”
Si guardarono l’un l’altro sconcertati. Ma quella era la verità. Non ero entrato nel loro ordine per conoscere la verità, la conoscevo già. Ci ero entrato solo per avere una buona compagnia con cui discutere.
Fin dall’infanzia mi sono sempre divertito a discutere. Facevo di tutto per avere una sana discussione con qualcuno, ma è sempre raro trovare la compagnia adatta. Entrai in quell’ordine Sufi – è la prima volta che lo confesso – permettendo addirittura a quegli stolti di circoncidermi… lo fecero in modo così primitivo che ne soffrii per almeno sei mesi. Ma la cosa non mi preoccupò: la sola cosa che mi interessava era conoscere il sufismo dall’interno. Ahimè! Nella mia vita non sono mai riuscito a trovare un vero Sufi. Non solo: non sono neppure riuscito a trovare un vero cristiano, o un vero chassidim.
J. Krishnamurti mi invitò ad un incontro, a Bombay. L’uomo che mi diede questo messaggio era un amico di entrambi, Parmananda. Gli dissi: “Torna da Krishnamurti e digli che se mi vuol vedere, venga da me, è più corretto che chiedere a me di andare da lui”.
Parmananda ribattè: “Ma è molto più anziano di te”.
Gli dissi: “Va’ e diglielo. Non rispondere per lui. Se dirà che è più anziano di me, allora non servirà a nulla incontrarlo: l’illuminazione non può essere più vecchia o più giovane, è sempre esattamente la stessa, semplicemente fresca, eternamente fresca”
Andò e non tornò mai più indietro: come poteva Krishnamurti, un vecchio, venirmi ad incontrare? Tuttavia mi voleva vedere. Non è interessante? Io non l’ho mai voluto incontrare, altrimenti sarei andato da lui. Lui mi voleva vedere, tuttavia voleva che fossi io ad andare da lui. Dovete ammettere che è un po’ troppo! Parmananda non tornò mai più con una risposta. Il giorno dopo, quando venne, gli chiesi cos’era successo.
Rispose: “Krishnamurti è andato in collera, al punto che non gli ho più chiesto nulla”.
Mi sarebbe piaciuto incontrarlo, ma non ho mai voluto farlo, per il semplice motivo che non mi piace andare dalla gente, neppure se si tratta di persone come J. Krishnamurti. Mi piace ciò che dice, mi piace ciò che lui è, ma non ho mai desiderato – per lo meno non l’ho mai detto a nessuno – andare da lui, perché in questo caso la cosa sarebbe semplice: io dovrei andare da lui.
Lui desiderava vedermi, ma voleva che fossi io ad andare da lui.
Questo non mi è mai piaciuto, e non lo farò mai.
Questo episodio ha creato, almeno da parte sua, un antagonismo nei miei confronti. Da allora ha sempre parlato contro di me. Non appena vede un mio sannyasin si comporta come un toro: se agiti un panno rosso di fronte ad un toro, sapete cosa succede… è ciò che accade non appena lui vede un mio sannyasin vestito di rosso. Esplode in collere improvvise. Io sostengo che deve essere stato un toro in una sua vita passata: non ha scordato il suo antagonismo col rosso.
Tutto questo è iniziato quando mi rifiutai di andare da lui. Prima di allora non aveva mai parlato contro di me. Da parte mia, io sono n uomo libero. Posso parlare a favore di qualcuno, e nella stessa frase posso parlare contro di lui, senza problemi: amo ogni sorta di contraddizioni e di incoerenze.
J. Krishnamurti è contro di me, ma io affermo di non essere contro di lui: lo amo. È uno degli esseri umani più belli del ventesimo secolo. Non penso esista un altro essere vivente, che possa venire paragonato a lui. Ma ha un limite, e quel limite è la sua rovina: cerca di essere puramente intellettuale, e questo non è possibile se ci si vuole elevare, se si vuole andare al di là di parole e di numeri.
Krishnamurti dovrebbe essere al di là, semplicemente al di là, ma è ancora aggrappato all’intellettualismo vittoriano. Non è neppure un intellettuale moderno, è vittoriano, vecchio di un secolo. Egli afferma di essere fortunato per non aver letto le Upanishad, la Gita e il corano. Ma cosa fare? Ve lo dico io: legge libri gialli di terza categoria.
Per favore non ditelo a nessuno, altrimenti si metterà a picchiare la testa contro il muro. Non mi preoccupo per la sua testa, ma per il muro. La sua testa è vittima di un emicrania che dura da cinquant’anni – più di quanto io abbia vissuto – al punto che spesso nel suo diario ha annotato la volontà di batterla contro il muro… sì, sono preoccupato per il muro!
Perché soffre di emicrania? Perché è troppo intellettuale. Non come il povero Asheesh, il mio falegname. Anche lui soffre di emicrania, ma il suo è un male fisico. L’emicrania di J. Krishnamurti è spirituale: è troppo intellettuale. Il solo ascoltarlo basta per farvi venire il mal di testa. Se non vi viene, dopo aver ascoltato un discorso di J. Krishnamurti, vuol dire che siete già illuminati, oppure che non avete una testa. Il secondo caso è più probabile, il primo è un po’ più difficile.
Il mal di testa di Asheesh può essere curato, non quello di Krishnamurti. E adesso non è più necessario: è troppo vecchio, e si è abituato a vivere col mal di testa. È un po’ come avere una moglie. Se glielo guarite. Lo lascerete solo, vedovo. Non fatelo. È sposato col suo mal di testa: e insieme moriranno.
Stavo dicendo che il mio primo incontro col monaco giainista iniziò una lunga serie di incontri con moltialtri cosiddetti monaci: tutti stronzi! Tutti sono vittime dell’intellettualismo, e io sono nato per riportarli con i piedi per terra. Ma è una cosa più che impossibile, forse non vogliono perché hanno paura: e forse per loro è un vantaggio non avere sensibilità o intelligenza.
Vengono rispettati come santi: per me sono solo sacro sterco di vacca. Ha una sola qualità: non puzza. Ve lo ricordo perché io sono allergico agli odori. E lo sterco di vacca ha una qualità: è anallergico. Raj Bharti, qual è la parola giusta?
“Non-allergenico, Bhagwan”.
Esatto: non-allergenico.
La mia Nani non era una vera donna indiana; perfino l’occidente le sarebbe stato un po’ estraneo. E ricordate: era assolutamente priva di cultura. Forse per questo era così perspicace. Forse riuscì a vedere in me qualcosa di cui io allora non ero consapevole. E forse è per questo che mi amò tanto… non posso dirlo. Non è più in vita. Una cosa la so: quando suo marito morì, non tornò più al villaggio; restò nel villaggio di mio padre. E là dovetti lasciarla; ma quando tornavo, continuavo a ripeterle: “Nani, possiamo tornare al villaggio?”
E lei mi rispondeva sempre: “Perché? Tu sei qui”. Quelle tre parole vibrano in me come una canzone: “Tu sei qui”, dico sempre anche a voi la stessa cosa. Mi amava, e voi sapete che nessuno potrà mai amarvi più di quanto io vi ami.
È meraviglioso… non siete mai stati quassù… ahimè! Se solo potessi invitarvi in questa dimensione himalayana! “Ora” è uno spazio incredibilmente bello. E mio povero Geet Bharti, posso ancora sentirti ridacchiare. Mio Dio. Non esiste nessuna medicina che possa impedirmi di sentire queste risatine!?
Non pensate che sia impazzito. Sono già pazzo. Lo vedete? La vostra follia e la mia sono completamente diverse. Sheela, annotalo. Perfino Rasputin, se fosse in vita, sarebbe un sannyasin… voglio dire, sarebbe stato un sannyasin. Nessuno, senza eccezione, potrà mai ingannarmi. Io sono il tipo di persona che perfino in punto di morte dirà: “Basta, per oggi basta…”.
Osho: Bagliori di un'infanzia dorata
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