Marcello Pamio
Ho avuto la possibilità di conoscere e intervistare Maria Maddalena, un'infermiera che lavora nel reparto di Terapia intensiva Covid. Il nome ovviamente è inventato per mantenere la privacy, ma le cose che afferma sono importanti e decisamente inquietanti.
D) Grazie Maria per aver accettato l'intervista, soprattutto perché sta rischiando molto. In che reparto sta lavorando?
R)
Attualmente sto lavorando in Terapia intensiva Covid. Ciò significa
prendersi cura di persone con gravi insufficienze respiratorie, in
pratica con polmoniti da Covid, spesso anche con la complicanza
dell’embolia polmonare. Le persone non riescono a respirare da sole in
modo efficace sfruttando l’ossigeno normalmente presente nell’aria: i
loro polmoni sono talmente infiammati che hanno bisogno di alte
percentuali di ossigeno che venga “sparato” a viva forza nei loro
polmoni tramite l’ausilio di occhialini ad alto flusso, maschere e
caschi ad alta pressione. Tutti questi presidi funzionano grazie
all’utilizzo di un ventilatore che invia la miscela di aria e ossigeno
in modo personalizzato e continuo. In caso di progressione della
malattia, queste ventilazioni non invasive possono non essere più
sufficienti perchè il polmone non riesce più a scambiare correttamente
O2 e CO2 affaticando e scompensando il paziente. Si rende allora
necessaria l’intubazione orotracheale. Il paziente viene sedato ed
intubato con un tubo che dalla bocca arriva in trachea, collegato al
ventilatore, che provvede ad effettuare per suo conto i movimenti
respiratori e a scambiare aria e O2 necessari alla saturazione ottimale.
Da quel momento il paziente viene monitorato ed assistito in tutte le
sue necessità fisiche ed emodinamiche attraverso un controllo continuo
intensivo e variazioni di farmaci e ventilazione vengono effettuate in
tempo reale in base ai parametri vitali.
D) Cosa vuol dire personalmente e professionalmente lavorare in un reparto covid?
R)
Dal punto di vista infermieristico lavorare in un reparto Covid
significa prendersi cura in toto di una persona gravemente ammalata e
dalle funzioni vitali compromesse, quindi cura dell’igiene, della
postura e della sicurezza della persona, prevenzione delle lesioni da
pressione, posizionamento e gestione presidi quali sondini nasogastrici,
cateteri vescicali, sonde rettali, cateteri venosi periferici,
collaborazione con il medico nell’esecuzione di esami strumentali anche
invasivi, esecuzione prelievi per esami ematochimici, monitoraggio
continuo parametri vitali, manovre rianimatorie, comunicazione e
conforto al paziente quando questi è cosciente, sostegno nelle sue
funzioni vitali giornaliere quali alimentazione ed eliminazione,
agevolando i suoi contatti con i familiari attraverso presidi
elettronici (telefono, tablet). Il tutto in aperta collaborazione tra le
varie figure che compongono il team professionale (Oss, infermieri,
medici, tecnici…)
Tutto il lavoro viene svolto in un reparto praticamente sigillato, in un contesto che vorrebbe essere di massima sicurezza per l’operatore, il che significa percorsi differenziati sporchi/puliti che però per questioni di logistica e di ottimizzazione delle risorse non sempre vengono rispettati, e questo accade spesso in molti altri reparti ospedalieri, dove si vogliono ottenere risultati altissimi nonostante la logistica estremamente carente…
Dal punto di vista psicologico, lavorare in un reparto Covid è molto pesante per l’impatto emotivo con queste persone che faticano a respirare. A queste persone manca l’aria, che è quanto di più prezioso e necessario abbiamo. Possiamo stare senza mangiare e senza bere per ore o giorni, senza respirare nemmeno cinque minuti. La paura della morte si legge nei loro occhi, ed è devastante per chi è vicino non riuscire a volte a fare abbastanza perché questo non accada. Vedere talora che tutto quello che viene fatto è inutile ed assistere all’agonia ed alla morte di questi pazienti è psicologicamente devastante, soprattutto perchè, andando a verificare le anamnesi della maggior parte di queste persone, si nota che la situazione si è deteriorata ancora quando erano a casa, in vigile attesa con tachipirina e poco altro. Personalmente sono a conoscenza da molti mesi dell’esistenza di terapie alternative domiciliari che praticamente nel 100% dei casi portano a guarigione praticamente senza ospedalizzazione. La cosa devastante è che dirigenti regionali e sanitari sono a conoscenza di questo da marzo 2020, e nonostante gli ottimi risultati hanno avallato il blocco di queste terapie, blocco che ricordiamo era stato disposto da Oms sulla base di uno studio pubblicato sulla rivista Lancet poi rivelatosi fake e ritrattato dalla rivista stessa. Nonostante questo Oms ed Aifa hanno continuato nel blocco di utilizzare in particolare uno di questi farmaci, l’idrossiclorochina, poiché in Italia risultava essere stato fatto uno studio su pazienti ospedalieri con dosaggi enormi di idrossiclorochina, mai utilizzati prima, che in realtà avevano danneggiato i pazienti. Uno studio, quindi, che sembrava fatto apposta per gettare discredito sul farmaco incriminato.
I medici che in tutta Italia stanno trattando con successo e guarigione del 100% dei pazienti A CASA sono riusciti a consentire nuovamente l’uso dell’idrossiclorochina solo nel mese di dicembre, purtroppo però sono sempre pochi i medici di base che prescrivono la terapia adeguata. In terapia intensiva arrivano persone ormai con polmoni compromessi, trattati con Tachipirina e lasciati a casa ad aspettare finché la situazione non è peggiorata. Nell’autunno scorso ho potuto anche verificare che molti dei pazienti deceduti, di varie età, avevano fatto anche la vaccinazione antinfluenzale, che però non è mai stata riportata in cartella, l’ho saputo chiedendo direttamente ai pazienti che erano in grado di parlare. Per i medici questo dato è irrilevante, tant’è che non figura mai nell’anamnesi patologica remota o prossima. Per me verificare queste situazioni è molto frustrante, anche perché pur provando a parlare con medici o colleghi infermieri di queste tematiche vi è una chiusura totale, una completa adesione ai protocolli e invece una derisione totale nei confronti di questi medici che stanno facendo sul territorio questo lavoro meraviglioso. Non riesco a capacitarmi della mancanza di collegamento tra territorio ed ospedale, collegamento che tanto era stato decantato negli anni scorsi, quando si è trattato di chiudere reparti o interi ospedali, allo scopo di potenziare l’assistenza domiciliare...
D) Com’è cambiata la sua professione nell'ultimo anno?
R)
Da quando è iniziata questa storia del Covid il lavoro infermieristico è
profondamente cambiato. Dover sempre indossare una mascherina di
protezione, anche negli altri reparti non Covid, ha innanzitutto posto
una barriera comunicativa di non poco conto. Ricordo già dai primi tempi
la difficoltà nel riconoscersi nei corridoi dell’ospedale avendo per lo
più gli occhi a fare da riferimento, che se da un lato ha stimolato la
necessità di guardarsi per riconoscersi, cosa che già da anni la gente
non fa più, ha stravolto la percezione dell’altro, soprattutto se si
conosce per la prima volta. Da quando è iniziato l’uso continuativo
delle mascherine ho iniziato a sorprendermi nel vedere il vero volto di
nuovi colleghi o dei pazienti, abituata come sono oramai ad essere
attorniata (e ad essere io stessa) una specie di mummia. La sensazione
che mi danno sempre le mascherine è quella di fare silenzio, stare zitti, non esprimere le proprie emozioni.
Questo è ulteriormente devastante in un reparto ospedaliero, dove la
componente emotiva ed empatica sono importantissime nel rapporto con la
persona ammalata. Le mascherine ffp2-3 hanno inoltre una ulteriore
caratteristica, quella di farci sembrare tutti delle specie di papere
incoscienti, che stanno andando incontro al carnefice che ha in mano il
becchime allo scopo di agguantarci per farci fuori e per poi finire in
padella. Una sensazione del tutto personale che mi è sempre più viva.
Il contatto, inoltre, è l’altra nota dolente che manca dall’inizio della “pandemia”. La stretta di mano, l’abbraccio, la vicinanza che fanno parte della nostra professione, sia nel rapporto con la persona ammalata che tra colleghi, è sparito, sostituito dalla diffidenza, dalla distanza, dai guanti, dal disinfettante usato a ogni piè sospinto. La concezione di “sei vicino, quindi sei infetto e pericoloso” è diventata imperante ed è devastante. Il paziente positivo, poi, ha proprio la sensazione di essere un untore e si sente ghettizzato ed incriminato solo per il fatto di avere questo tampone positivo e magari anche la malattia, quasi fosse una colpa. Spesso infatti sento chiedere dai colleghi: “Ma dove è andato a prenderselo questo Covid?” come se fosse un reato avere l’infezione.
I lunghi mesi nei quali le autorità politiche e sanitarie, corroborate dai mezzi di informazione ufficiali, hanno diffuso il terrore per questa malattia, per gli assembramenti, la caccia agli untori, ai positivi asintomatici, provocano nel malcapitato paziente che arriva ad essere ricoverato una sensazione continua di angoscia e terrore, che altro non fa che peggiorare la situazione.
L’ospedale è stato per me una seconda casa per anni, un serbatoio di amicizie, di conoscenze, un luogo che consideravo aperto, di crescita, di formazione. Dall’anno scorso (ma già forse da qualche anno prima) si è trasformato in una specie di lager, dove solo pochissime persone possono entrare, spesso senza il conforto di un accompagnatore, lasciate sole ad affrontare esami diagnostici, procedure curative anche molto pesanti, in nome del distanziamento e della sicurezza. Tutto è spersonalizzato, i rapporti personali ridotti al minimo, tutte figure che si scansano, temono anche solo di guardarsi quasi che l’occhio stesso possa trasmettere il virus. Il controllo ossessivo della temperatura, guai ad uno starnuto, ad un colpo di tosse...in ospedale!!! Poter lavorare senza mascherine e con divise leggere è un sogno ormai lontano!
Un’altra nota dolente legata alla professione infermieristica è quella relativa alle informazioni che ciascun operatore dovrebbe avere, proprio a titolo di conoscenza relativa al lavoro svolto. Dall’anno scorso ho fatto notare innumerevoli volte a colleghi di tutte le professioni l’inutilità delle mascherine chirurgiche in questa cosiddetta pandemia, ed ugualmente mi aspetterei che tutt’ora si potessero tirare le fila dai dati che abbiamo. A parte i reparti dove ci sono pazienti Covid, fino a non molto tempo fa in tutto l’ospedale si è continuato ad utilizzare sia come personale che come pazienti solo le mascherine chirurgiche che è assodato non avere alcuna utilità nel fermare la trasmissione dei virus. Stante così la situazione, ed ammessa la pericolosità del Sars-CoV-2, dovremmo avere la quasi totalità del personale ammalato, deceduto o comunque positivo. Tenendo presente che così non è stato, mi aspetterei che tutti gli esperti in Evidence Based Nursing e Medicine che pullulano a livello di CIO (Comitato Infezioni Ospedaliere) abbiano potuto giungere ad una conclusione che mi sembra ovvia: le mascherine chirurgiche non servono a nulla e la trasmissione del Sars-CoV-2 è difficilissima.
D) Immagino dovrà adottare sistemi di protezione che
ricordano i laboratorio di massima sicurezza visti nei film di
fantascienza: scafandro, visiera, mascherina, ecc?
R)
Lavoriamo con dispositivi di protezione individuali come da protocollo,
quindi divisa, camice idrorepellente, copricapo, mascherina ffp2-3,
visiera, calzari, almeno due paia di guanti, e talora un ulteriore
camice idrorepellente da utilizzare in situazioni particolari di
infettività o di igiene. Come si può immaginare, trascorrere dalle 7
alle 10 ore bardati in tal modo è molto faticoso ed impegnativo, sia dal
punto di vista energetico che respiratorio, tenendo presente che finché
si rimane nel reparto nelle vicinanze dei pazienti non è possibile
nemmeno bere un bicchiere d’acqua o recarsi ai servizi, pertanto se la
mole di lavoro è tanta può capitare di non poter fermarsi mai per un
turno completo. Per poter fare una pausa è necessaria una svestizione
appropriata seguendo regole precise per evitare contaminazioni, e
successivamente il rientro richiede nuovamente l’utilizzo di nuovi
dispositivi di protezione individuale.
Questo modo di approcciarsi nei confronti dei pazienti dà veramente
l’idea della distanza sociale. In più, per ovvie ragioni di praticità
dovute alla quantità notevole di presidi presenti sul proprio corpo
(sensori, cateteri venosi, arteriosi, drenaggi, cateteri vescicali, ecc)
le persone ricoverate nel reparto sono seminude e coperte solo da un
camice. Questo certo non li aiuta, se coscienti, a mantenere una privacy
adeguata, e vedersi attorniati da persone irriconoscibili per maschere e
visiere li fa sentire sicuramente più isolati e spaventati da questo
ambiente asettico. Il contatto fisico purtroppo come già detto non
esiste poichè dobbiamo sempre usare almeno 2 paia di guanti ed anche
questo può essere molto frustrante per una persona che si sente sola. In
più i parenti non vengono lasciati entrare se non in caso di estrema
gravità o in casi eccezionali (pazienti particolarmente disorientati) e
ciò aumenta nelle persone la sensazione di solitudine e smarrimento.
Devo
dire che, veramente, tutti gli operatori sono gentilissimi e cercano
comunque di instaurare un buon rapporto con i pazienti, ma gli ostacoli
comunicativi sia fisici (maschere-visiere) che psicologici o legati agli
effetti collaterali dei farmaci o della malattia stessa spesso
compromettono la relazione.
D) Cosa ne pensa del tampone? Dalla sua esperienza si tratta di un test affidabile oppure no?
R)
Dall’inizio della “pandemia” ho iniziato ad informarmi su questo
tampone, scoprendo fin da subito che non esiste il Gold Standard per
questo metodo diagnostico, e questo è stato confermato perfino in tempi
recenti dal prof. Palù, ora presidente Aifa. Non esistendo il Gold
Standard, va da sé che i risultati sono opinabili, e soprattutto se non
correlati ad una sintomatologia in corso, assolutamente inaffidabili,
anche perché per quel che riguarda il test molecolare i cicli di
amplificazione fanno la differenza, dopo i 24 cicli si può trovare
sempre positivo senza che vi sia alcuna correlazione con il Sars-CoV-2.
Per questo motivo, nonostante nella maggior parte delle aziende lo
facciano passare come tale, non è uno screening obbligatorio per il
personale, e ci si può rifiutare di farlo, anche se talora serve la
minaccia di adire alle vie legali per non farlo. Essendo un test
invasivo, inoltre, necessita del consenso informato correlato anche del
nome dell’esecutore, poiché entrando in profondità nel rinofaringe può
causare danni anche gravi, per cui la persona che lo subisce deve
esserne consapevole e l’operatore che lo esegue ne deve essere
responsabile.
Anche a livello di logica, questo tampone profondo non
ha nessun significato: per quale motivo devo andare a ricercare così in
profondità una particella che mi dite essere così infettiva e
terrificante da dover girare con la mascherina, usare Dpi, chiudere
negozi ed instaurare il coprifuoco? Se è così terrificante la possiamo
trovare anche in un test salivare, sulla punta della lingua, senza
andare a toccare punti sensibilissimi e delicatissimi.
Dalla mia esperienza ho avuto esempi pratici in reparto di soggetti
sintomatici positivi al molecolare e negativi al rapido, ritenendo
valido il rapido (!) con la motivazione del dirigente di microbiologia
che “il molecolare è amplificato oltre 35 cicli e viene sempre
positivo!!!”, e anche il contrario, soggetti asintomatici con tampone
rapido positivo e il successivo molecolare negativo, ritenendo valido il
negativo.
Ugualmente riporto il caso di un medico, articolo
pubblicato su un giornale locale, che dopo sia la prima che la seconda
dose di vaccino Pfizer è risultato positivo, e non se lo sapeva
spiegare. Se non lo sa spiegare un medico, come posso saperlo io? Mi
limito a fare presente che con i tamponi è vero tutto ed il contrario di
tutto, e per questi tamponi inaffidabili abbiamo distrutto la società e
l’economia mondiali, paralizzato le scuole, diviso famiglie e stiamo
tirando su dei figli psicopatici.
D) Vorrei sentire il suo parere in merito all’obbligatorietà
vaccinale. Secondo lei è giusto che un operatore sanitario sia obbligato
per legge a farsi vaccinare? Se c’è un obbligo qual è il senso del
consenso informato?
R) Nessuno deve essere obbligato ad un
vaccino (in realtà terapia genica). E’ un farmaco sperimentale, la cui
autorizzazione al commercio è stata data in deroga alle normative
europee, ed è in monitoraggio addizionale: ciò significa che viene
tenuto particolarmente sotto controllo perché la sperimentazione non è
stata fatta come da protocolli standard, ma è stata autorizzata
direttamente sulle persone, cioè noi tutti stiamo facendo da cavie.
I dati effettivi sulla sperimentazione si avranno solo dalla fine del
2023. In tutte le note informative di Ema, Aifa, dai bugiardini stessi
forniti dalle case farmaceutiche si evince chiaramente che non
si sa se è totalmente efficace, ci si può infettare e trasmettere
infezione anche se vaccinati, che una volta vaccinati si dovranno
rispettare tutte le misure di sicurezza ed indossare i dpi. inoltre e’
dichiarato che i danni a lungo termine non sono ancora conosciuti. Oltre
a questo l’Unione Europea ha concesso alle case farmaceutiche
l’esenzione da qualsiasi tipo di responsabilità nel caso di eventuali
danni provocati da questi vaccini. oltre a questo, cosa ci devono dire
ancora perché capiamo che è solo un colossale business?
Con queste premesse, un obbligo vaccinale è non solo anticostituzionale, ma va anche contro a tutte le leggi internazionali applicate in Italia sulla tutela dei diritti dell’uomo. Inoltre il DL 44, oltre alla incostituzionalità, ha riportato delle violazioni della privacy, quali la possibilità di trasmettere e verificare dati sensibili personali in aperto dispregio della pronuncia del garante della privacy, oltre alla palese incongruenza di imporre un obbligo vaccinale per cui però si richiede il consenso.
Se non sono d’accordo su una pratica medica potenzialmente lesiva per la mia persona ho tutto il diritto di rifiutare il mio consenso ai sensi dell’art. 32 della Costituzione , ed allo stesso tempo prevedere il demansionamento o la sospensione della mia attività lavorativa va contro l’articolo 4 e l’art. 38 della Costituzione.
Come ho potuto lavorare per tutto un anno di Covid, coprire turni, saltare ferie per coprire malattie di colleghi vaccinati ed essere ora improvvisamente non più idonea al lavoro? Inoltre nessuno di noi è stato valutato sierologicamente per verificare se già siamo venuti in contatto con il Sars Cov 2 ed abbiamo gli anticorpi. Inoltre tra di noi vi potrebbero essere soggetti No responder (soggetti che non sviluppano risposte anticorpali in seguito a vaccinazioni) che comunque anche nonostante più inoculi potrebbero non sviluppare mai anticorpi. Paradossalmente quindi potremmo in futuro avere al lavoro operatori sanitari perfettamente vaccinati senza anticorpi e quindi non protetti, ed operatori sanitari non vaccinati sospesi ma con gli anticorpi e quindi protetti. una follia di stato.
D) Da quello che vede e assiste in reparto: può descrivere i
pazienti che finiscono con il casco di ossigeno o addirittura intubate:
sono solo persone anziane o ci sono anche giovani? Tutti col covid
oppure si trovano là anche per altri motivi?
R) C’è una
variabilità di età tra le persone che finiscono in terapia intensiva:
negli ultimi tempi stiamo assistendo a persone più giovani, tra i 40 e i
60 anni, anche se permangono pazienti nella fascia di età più colpita
in passato, tra i 70 e 80 anni. Solitamente sono persone precedentemente
pluripatologiche, che però entrano tutte con diagnosi di polmonite da
Covid. Stiamo assistendo anche agli arrivi dei primi soggetti
completamente vaccinati, che purtroppo a distanza di poche settimane
dalla seconda dose sembra sviluppino malattie molto più resistenti alla
terapia tradizionale, anche purtroppo alla terapia domiciliare personalizzata, non facendosi mancare neppure le embolie polmonari e le intubazioni.
Talora capitano anche pazienti che permangono nel nostro reparto con patologie gravissime completamente sganciate dal Covid ma che soggiornano nelle nostre stanze perchè hanno avuto la sfortuna di avere un tampone positivo per Covid, sebbene la patologia sia assolutamente sganciata dal Sars-CoV-2. In caso di morte sono stati comunque classificati come morti da covid pur non essendoci nessuna correlazione, poichè il semplice tampone positivo ti classifica automaticamente in questa categoria. E questo accade da molti mesi.
D) Dicono che chi si vaccina è un po' più sicuro di non contrarre il virus? Qual è la sua esperienza in merito?
R)
Dalla mia esperienza posso confermare che non vi è alcuna sicurezza sul
nesso vaccinazione = protezione. Ho colleghi che si sono positivizzati e
sono rimasti a casa in malattia dopo la vaccinazione, e ci sono persone
che come me non hanno mai contratto il virus nonostante ci lavori in
mezzo da oltre un anno. Dai racconti dei pazienti stessi si possono
riscontrare delle perle di saggezza, poiché in molti ci hanno raccontato
di essere gli unici positivi e sintomatici in famiglia, nonostante
abbiano condiviso il letto e la tavola con il loro partner ed altri
familiari, totalmente negativi ed asintomatici.
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