di Danilo Della Valle –
Da qualche settimana il Venezuela ha strappato nei media titoli di
prima pagina che prima con difficoltà gli sarebbero stati concessi.
Immagini di un Paese sull’orlo della guerra civile, afflitto da fame e
da miseria. Code interminabili dinanzi a negozi di alimentari, articoli
che parlano di scarsità di farmaci e di violenza.
Da un lato nerboruti e apparentemente incattiviti guardiani del “regime”, dall’altro masse sventolanti vessilli nazionali in un contesto allegro e non-violento, raffigurato nel “glorioso” sforzo di abbattere l’odioso sistema autoritario, ora guidato da un vecchio socialdemocratico, ora da un giovane homo novus, assurto alle cronache internazionali quale autoproclamato Presidente del Venezuela. Dubbio schema narrativo dello storytelling già troppe volte raccontato.
Da un lato nerboruti e apparentemente incattiviti guardiani del “regime”, dall’altro masse sventolanti vessilli nazionali in un contesto allegro e non-violento, raffigurato nel “glorioso” sforzo di abbattere l’odioso sistema autoritario, ora guidato da un vecchio socialdemocratico, ora da un giovane homo novus, assurto alle cronache internazionali quale autoproclamato Presidente del Venezuela. Dubbio schema narrativo dello storytelling già troppe volte raccontato.
Cosa è successo in Venezuela?
Dopo le contestate elezioni di Maggio
2018 da parte di alcuni partiti della spaccata opposizione venezuelana,
che pur avevano chiesto ed ottenuto consultazioni anticipate, Nicolás
Maduro ha giurato come Presidente del Venezuela, riconosciuto dalla
Costituente, dalla Corte Suprema e dall’esercito. Dopo questo atto il
neo eletto Presidente del Parlamento Venezuelano, giovane leader di Voluntad Popular
Guaidó, durante una manifestazione commemorativa dei sessantuno anni
dalla fine della dittatura di Jiménez, giura sulla Costituzione
autoproclamandosi Presidente del Paese. Guaidó riceve immediatamente il
riconoscimento degli Usa di Trump, del Canada, Australia e parte dei
Paesi OSA. Dal 23 Gennaio 2019 il Venezuela rischia una guerra civile. A
seguito della minaccia di un intervento militare, caldeggiato
dall’autoproclamato Presidente, migliaia di persone di ogni orientamento
politico, si attivano nel Paese per raccogliere firme contro
l’ingerenza e per una risoluzione pacifica del conflitto.
Chi è il giovane leader autoproclamatosi Presidente?
Prima dell’elezione a Presidente
dell’Assemblea Nazionale, avvenuta il 5 gennaio 2019, solo un
venezuelano su cinque conosceva Guaidó. Ingegnere 35enne, laureatosi in
Venezuela e specializzatosi alla Washington University, non è così
sconosciuto tra gli analisti latinoamericani. Secondo il sociologo Marco
Teruggi si tratta di un “personaggio
creato ad hoc in laboratorio. Un mix di elementi che portano alla
costruzione di un personaggio a metà tra il preoccupante e il ridicolo”;secondo
lo scrittore venezuelano Sequera “Guaidó è più popolare all’estero,
soprattutto nei circoli delle élite della Ivy League di Washington”.
Sebbene sia considerato il volto nuovo della democrazia in Venezuela, il
leader di Voluntad Popular non si è distinto in passato per
praticare la politica con metodi pacifici, al contrario di altri partiti
di opposizione; celebri sono il suo video del 2014 dove, indossando una
maschera antigas, incitava alla resistenza, ed altre immagini che lo
ritraggono in strada durante le guarimbas del 2017, costate la vita a circa 200 persone. Voluntad Popular, ha solo il 14% dei seggi dell’Assemblea Nazionale; secondo l’analista politico Luis Leon, presidente di Datanálisis,
Guaidó non ha un reale contatto con il popolo. Inoltre, secondo
l’esperto sondaggista venezuelano, i leader dei partiti più estremisti
come VP non supererebbero il 20% alle elezioni perché “il popolo non vuole la guerra, chiede una soluzione”.
Per comprendere le dinamiche della contrapposizione tra i diversi blocchi sociali è indispensabile fare un passo indietro. Il Venezuela, “stranamente”, ha almeno un elemento che lo accomuna ad altre nazioni soggette alle stesse instabilità politiche: il petrolio. Secondo le stime del 2017, il Paese che diede i natali a Bolívar possiede la più grande riserva al mondo di oro nero; l’Opec calcola oltre 300 miliardi di barili, il 24,9% delle riserve mondiali, otto volte superiori a quelle dei non disinteressati USA. Con la vittoria nel 1998 del MoVimento 5° Repubblica di Chávez il controllo sulle risorse nazionali fu ribaltato; si arrivò ad un ciclo di nazionalizzazioni tese a favorire la domanda interna e all’avvio delle misiones sociales.
Per comprendere le dinamiche della contrapposizione tra i diversi blocchi sociali è indispensabile fare un passo indietro. Il Venezuela, “stranamente”, ha almeno un elemento che lo accomuna ad altre nazioni soggette alle stesse instabilità politiche: il petrolio. Secondo le stime del 2017, il Paese che diede i natali a Bolívar possiede la più grande riserva al mondo di oro nero; l’Opec calcola oltre 300 miliardi di barili, il 24,9% delle riserve mondiali, otto volte superiori a quelle dei non disinteressati USA. Con la vittoria nel 1998 del MoVimento 5° Repubblica di Chávez il controllo sulle risorse nazionali fu ribaltato; si arrivò ad un ciclo di nazionalizzazioni tese a favorire la domanda interna e all’avvio delle misiones sociales.
Già all’epoca tali politiche avevano
creato tensioni tra chi rivendicava il diritto ad esistere e chi non
voleva perdere neanche un briciolo di quel che aveva ottenuto. Lo
scontro tra le diverse “idee di Paese” attraverso tentativi di colpi di
Stato, come quello del 2002, 25 elezioni, scontri di piazza ed il
decesso di Chávez, arriva fino ai giorni nostri.
Con la morte di Chávez la situazione è cambiata; l’acuirsi della crisi petrolifera, i risultati di alcune scelte sbagliate di politica economica (il Venezuela ha notevoli risorse minerarie ma poche infrastrutture, segno di dipendenza esterna e difficoltà di politica industriale) e le sanzioni imposte da USA ed UE, che costano al Venezuela circa 33 miliardi di dollari come dimostra il rapporto CELAG, hanno portato il Venezuela ad una crisi, con scarsità di beni di prima necessità e medicine, e un aumento della pressione interna ed internazionale, ai danni del governo in carica. A trarne beneficio sono le grandi aziende private e i controllori del mercato nero che riescono a piazzare beni di consumo a prezzi stratosferici. A rimetterci è sempre la popolazione.
Il Venezuela è anche il Paese che traina l’Alba, progetto di cooperazione sociale, politica ed economica tra i Paesi della regione con l’obiettivo di raggrupparli per la loro emancipazione, come sognava Bolívar. Ciò ha dato una spinta importante alla visione multipolare del mondo. Se fino all’avvento di Chávez a dominare il Paese erano le aziende USA, dal duemila le cose hanno preso una piega diversa; cooperazione economico-militare con Cina e Russia, investimenti infrastrutturali, hanno ridisegnato la geografia dei rapporti internazionali. Inoltre le nazionalizzazioni hanno lasciato l’amaro in bocca a molti oligarchi.
Con la morte di Chávez la situazione è cambiata; l’acuirsi della crisi petrolifera, i risultati di alcune scelte sbagliate di politica economica (il Venezuela ha notevoli risorse minerarie ma poche infrastrutture, segno di dipendenza esterna e difficoltà di politica industriale) e le sanzioni imposte da USA ed UE, che costano al Venezuela circa 33 miliardi di dollari come dimostra il rapporto CELAG, hanno portato il Venezuela ad una crisi, con scarsità di beni di prima necessità e medicine, e un aumento della pressione interna ed internazionale, ai danni del governo in carica. A trarne beneficio sono le grandi aziende private e i controllori del mercato nero che riescono a piazzare beni di consumo a prezzi stratosferici. A rimetterci è sempre la popolazione.
Il Venezuela è anche il Paese che traina l’Alba, progetto di cooperazione sociale, politica ed economica tra i Paesi della regione con l’obiettivo di raggrupparli per la loro emancipazione, come sognava Bolívar. Ciò ha dato una spinta importante alla visione multipolare del mondo. Se fino all’avvento di Chávez a dominare il Paese erano le aziende USA, dal duemila le cose hanno preso una piega diversa; cooperazione economico-militare con Cina e Russia, investimenti infrastrutturali, hanno ridisegnato la geografia dei rapporti internazionali. Inoltre le nazionalizzazioni hanno lasciato l’amaro in bocca a molti oligarchi.
Il pericolo di una nuova Libia
Nel marasma generale la possibilità che
si ripeta un golpe, come fu in Cile, Libia o in Iraq, è concreto. Se da
una parte è innegabile che Russia e Cina hanno interessi geostrategici
in Venezuela, è altrettanto innegabile che gli USA poco tollerano una
visione socioeconomica diversa da quella neoliberista. La nuova politica
di Trump ha bisogno di vicini politicamente subordinati e non si può
dire che gli USA siano solo osservatori di ciò che accade. A dimostrare
l’ingerenza nella politica venezuelana c’è la nomina di Elliott Abrams
come inviato dell’amministrazione Trump per “aiutare il popolo venezuelano a ripristinare pienamente la democrazia nel Paese”.
Ciò ha scandalizzato non pochi giornalisti negli USA per la fama non
certo pacifista dell’esperto; assistente segretario di Stato per i
diritti umani, negli anni ‘80 con Regan, Abrams sostenne le dittature in
Guatemala, El Salvador e Honduras. Dopo esser stato condannato, e
subito graziato dall’amministrazione Bush, per aver mentito al Congresso
sullo scandalo Iran-Contra, tornò in auge nel 2001, come direttore del National Security Council
per George Bush dove ebbe un ruolo chiave nel tentato colpo di Stato
del 2002 in Venezuela contro il Presidente Chávez e nella guerra del
2003 in Iraq. Non certo una colomba questo Abrams. Secondo Alfred De
Zayas, professore di Diritto Internazionale a Ginevra e unico rappourter
dell’ONU in Venezuela, la partita geopolitica che si sta giocando nel
Paese latinoamericano e il riconoscimento dell’autoproclamato Guaidò
sono segnali pericolosi: “si tratta di una violazione del diritto internazionale consuetudinario,
del Capitolo 4 articolo 19 della Carta OSA, e degli articoli 1 e 2
della Carta delle Nazioni Unite. Il principio di non ingerenza negli
affari interni degli altri Paesi è riconosciuto in molte sentenze dalla
Corte internazionale di giustizia, in particolare nella famosa sentenza
del 1986 conosciuta come Attività militari e paramilitari in e contro il
Nicaragua”.
E l’Europa cosa fa?
Una parte dell’opinione pubblica è
memore dei pericoli che possono nascondere eventuali ingerenze in
situazioni delicate come queste. Un’altra parte sembra già sapere con
chi schierarsi, senza prendere in considerazione l’ipotesi terza, quella
della pace e della non ingerenza. Se da un lato la maggior parte dei
governi Europei ha deciso di rischiare l’ennesimo fallimento politico e
seguire la linea dell’ultimatum prima, e poi del riconoscimento
dell’autoproclamato Guaidó, anche i media sembrano aderire alla classica
narrazione dell’eroe buono contro il dittatore. In continuità con lo
schema dell’antropologo russo Propp (L’antropologo nel saggio Morfologia della fiaba spiega questo schema che ancora oggi si utilizza per analizzare i mass media)
e con la dottrina del politologo americano Gene Sharp, ispiratore di
diverse “rivoluzioni colorate”, i media occidentali omettono la
polarizzazione nella politica venezuelana, che ha raccolto nell’ultimo
fine settimana centinaia di migliaia di manifestanti pro governo, e
trasmette solo le immagini delle manifestazioni di “opposizione”, anzi
solo di parte di essa; e così nessun media trasmette il video della CNN
Cile dove l’analista Raul Sohr mostra il documento di riconoscimento di
Guaidó di vari Paesi latinoamericani, firmato il 14 Gennaio,
esattamente 9 giorni prima della auto-proclamazione dello stesso. Il
posizionamento ideologico sembra essere al di sopra di tutto e tutti gli
scenari sono possibili, anche se un intervento militare potrebbe essere
scongiurato dalla deterrenza esercitata da Russia e Cina, attori con
importanti interessi nel Paese. L’unica scelta logica in Europa risulta
essere quella del Governo Italiano che, in netta controtendenza con le
politiche guerrafondaie dei precedenti governi, sta provando a portare
avanti l’appello di Uruguay, Messico e Vaticano. Un discorso improntato
sulla diplomazia di pace e sul dialogo tra le parti in causa, unico
metodo possibile per evitare che scorra altro sangue, far sì che la
volontà popolare prevalga senza l’interferenza di potenze straniere. O
qualcuno dimentica come sono iniziati gli altri interventi “politici” o
militari atti a limitare la sovranità di alcuni Stati? Abbiamo ancora
bisogno di un altro Iraq, di un altro Cile, di un’altra Libia, di un
nuovo Plan Condor? Abbiamo bisogno ancora di milioni di morti prima che qualcuno chieda scusa
per aver sbagliato target, come fece Blair? Questa è la domanda che
sorge spontanea ed alla quale qualcuno, dovrebbe rispondere.
L’AUTORE
Danilo Della Valle,
laureato in scienze politiche e relazioni internazionali (con tesi
sull’entrata della Russia, nel Wto); Master in Comunicazione e
Consulenza politica e Scuola di formazione “Escuela del buen vivir” del
Ministero degli Esteri Ecuadoriano. Si occupadi analisi politica,
principalmente di Eurasia. Scrive per l’antidiplomatico, “Il mondo alla
rovescia”.
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