L’emozionante racconto di uno dei primi occidentali a un campo di meditazione organizzato da Osho nei primi anni ‘70: il forte impatto non solo con la presenza di Osho e con la meditazione, ma anche con la particolare bellezza dell’India
Articolo apparso su Osho Times n. 213
Prima di stabilirsi a Pune, nel 1974, Osho organizzava campi di meditazione, in varie località, in cui si sperimentavano le tecniche che stava mettendo a punto proprio in quegli anni. Uno dei suoi posti preferiti era Mount Abu, sulle colline del Rajasthan.
Il freddo
Sono assolutamente impreparato al freddo di Mount Abu a gennaio. È una presenza inevitabile, insidiosa, che pervade tutto. Quasi tangibile, incombe sull’aria di montagna e “morde” le dita dei piedi, delle mani e il naso quando non sono coperti. Si insidia nelle pareti da cui sembra deridere il debole Sole invernale. Mi aspetta al varco come un agghiacciante aguzzino, pugnalandomi fin nelle ossa dalle lenzuola gelate e dal pavimento in pietra del bagno. Intiepidisce persino il tè del mattino nel tragitto che compie dalla teiera fino alla tazza. Decido di indossare sempre la coperta di lana del letto, ovunque vada, promettendo in piena sincerità all’impiegato dell’albergo di riportarla alla sera: di questo non deve affatto preoccuparsi!
La bellezza
Il Sole comincia a scaldarmi un po’ e mi rivela la bellezza di Mount Abu. Sorge proprio dal deserto del Rajasthan e si alza sulla cima di un famoso tempio giainista, scolpito a mano nel marmo bianco nel corso dei secoli. Questi templi punteggiano le cime brulle che circondano il deserto. Come alti e bianchi monumenti agli dèi, si alzano verso il cielo, un invito ai pellegrini che arrivano dalle pianure polverose. Ma Mount Abu si distingue anche per un’altra cosa: è la sola località di collina del Rajasthan, l’unico rifugio dal Sole brutale che in estate brucia la terra arida. Questo non è un problema al momento, anzi, e quindi Mount Abu è tutto nostro. Qua e là, coi vestiti arancioni che spuntano da sotto altre coperte d’albergo, ci sono già alcuni sannyasin, arrivati un paio di giorni in anticipo, per rilassarsi un po’ prima di iniziare il campo di meditazione di dieci giorni con Osho.
Fatta eccezione per il freddo, di Mount Abu ci si innamora all’istante. Il viaggio in autobus su per la montagna – ore e ore di continui rumorosissimi cambi di marcia, di tornanti che non finivano mai, di salite che sembravano impossibili, di vegetazione scarsissima e grandi cime grigie – non sembrava promettere nulla. E dopo aver attraversato boschi di pini, cedri e liane intricate, quasi senza preavviso, ci siamo ritrovati su un altopiano paradisiaco e nascosto, dove boschetti di palme si piegavano con grazia su romantici laghetti bordati di licheni viola pallido e fresco muschio verde. La percezione della roccia era travolgente: qualcosa di primitivo e primordiale, che si spingeva dappertutto attraverso il sottile strato di terra superficiale... una presenza decisa e dominante.
La gente
Gli abitanti del Rajasthan sono gente delle rocce e del deserto, abituati a viaggiare sulle colline pietrose e nelle polverose pianure portando al pascolo pecore, capre e cammelli, ovunque la terra sbiancata dal Sole dia vita alla sua erba dura. E anche la città di Mount Abu, bianca e splendente, che abbraccia la montagna in lontananza, sembra nata da quella terra.
C’è un’atmosfera di festa in città. I negozianti sono entusiasti di questa fonte di guadagno extra – una vera e propria miniera d’oro fuori stagione – portata dai sannyasin di Osho. I sarti cercano di star dietro alle nostre ordinazioni, tutte urgenti, di indumenti per proteggerci dal freddo mattutino e dal gelo della notte. I facchini corrono su e giù per le strade pietrose dalla stazione degli autobus ai vari ristoranti, trasportando le verdure fresche che arrivano dai mercati della pianura, con le ginocchia piegate e i turbanti schiacciati sotto il peso di enormi ceste traboccanti di cavoli e patate, spinaci e cavolfiori, pomodori rosso vivo e barbabietole rosso scuro. Ghirlande di cipolle e di aglio emergono prematuramente dalle cantine invernali; erbe, spezie e peperoncini sono portati all’aperto, per affrettare il processo di essiccazione nel bagliore del sole pomeridiano.
L’odore dei fuochi riempie l’aria: carbone e legno, carbonella e sterco di vacca. Tutto bolle: pentoloni di tintura arancione per sopperire alle richieste dei sarti. Padelle piene di olio d’arachidi sfrigolano e sprizzano a ogni nuovo samosa (panzerotto di verdure) messo a friggere nelle loro turbolente profondità. Fumanti calderoni di latte di bufala si riducono e si condensano, preparandosi a trasformarsi in ricchi dolci zuccherosi: ladoo, palle di cereali, e barfi, quadratini di latte condensato, regalmente rivestiti d’argento commestibile che si scioglie come nebbia sulla lingua.
Il circo arancione è arrivato in città e gli abitanti dei villaggi sono venuti dalle colline, molti a vendere i loro prodotti, molti solo a guardare. E sono uno spettacolo, questi pastori del Rajasthan: in una terra priva di colori, dove predominano le tonalità della sabbia e della pietra, sono diventati dei veri e propri arcobaleni viventi.
Le donne, in particolare, sono incredibili. Indossano, strato su strato, gonne di ogni sfumatura immaginabile di rosso: rubino e granato, carminio e vermiglio, ciliegia e pomodoro. Strani indumenti simili ad armature coprono i loro seni: boleri multicolori dagli intricati ricami che incastonano piccoli cerchietti di specchio. Alle caviglie hanno grandi anelli d’argento e le braccia, prima dal polso al gomito e poi dal gomito alla spalla, sono coperte da piatti bracciali d’avorio ingialliti dal tempo. Le orecchie e il naso sono forati in più punti, ogni buco col suo ornamento d’argento. I capelli corvini sono raccolti in trecce e ornati da pesanti ciondoli d’argento che pendono bassi, incorniciando i loro volti. E sono molto curiose: senza alcun riserbo ci guardano dritto negli occhi, come per valutarci. Non hanno pudici rossori femminili. Sono pure femmine: crude, fiere, ben radicate in se stesse.
Gli uomini, invece, sono alti e magri e ci guardano dall’alto verso il basso con un nobile e tagliente disprezzo, come per ricordarci che discendono dai grandi guerrieri Rajput. Vestono di bianco, corte giacche che arrivano alla vita, allacciate nella parte anteriore e sulla schiena una sfilata di rigide pieghe che si allargano. Le gambe sono strettamente avvolte in dhotis di cotone spiegazzato, che in alto si raccolgono in una specie di pacchetto teso e gonfio che esagera la loro mascolinità. Ai piedi portano scarpe di cuoio lavorato con punte che si curvano verso l’alto. Ma è nei turbanti che dichiarano la loro supremazia, eclissando persino le loro donne: metri e metri del più fine cotone, il migliore, avvolto in cerchi e spirali a formare enormi regali corone, coi rossi più vivaci e i gialli più intensi.
La famiglia arancione
E anche gli occidentali che arrivano a Mount Abu sono una grande sorpresa. Ne avevo incontrato solo una manciata a Mumbai e non avevo idea della varietà di persone che, come me, avevano aderito alla famiglia arancione di Osho. Giovani casalinghe e lattai di mezza età, medici ben in carne e asciutti operai edili, infermiere molto ammodo e bibliotecari molto rilassati, appassionati studenti e professori brizzolati, terapisti un po’ tesi e psichiatri sempre di fretta, oltre a una folla di freak di ogni genere coi capelli lunghi e abbigliati in tutti i modi.
Ci incontriamo a bere té nei chai-shop o nei ristoranti, parlando e condividendo le nostre avventure. La mancanza di interesse per le storie personali è notevole: nessuno sembra preoccuparsi del passato. Il Sole, il tè, il cibo e le facce sorridenti sono sufficienti. E ci riuniamo la sera a fare musica, a danzare e a cantare; ogni sera la folla cresce, l’energia aumenta: età, religioni e nazionalità diverse spariscono come sommerse dal fiume arancione che ci connette tutti a Osho.
L’inizio
E all’improvviso, lui arriva. Qualcuno irrompe nella festa, ci chiede di far silenzio, dicendo che Osho è a Mount Abu, che stasera starà anche qui a dormire. E per consenso unanime, anche se non espresso, la musica e le danze semplicemente smettono. Tranquillamente, andiamo ognuno per la sua strada, come se il lavoro interiore che siamo venuti a fare qui fosse, per la sua stessa presenza in mezzo a noi, già iniziato.
Osho terrà un discorso sui Vedanta ogni mattina e nella serata risponderà a domande scritte. Ogni giorno si terranno due meditazioni in sua presenza: la Dinamica, subito dopo il discorso mattutino, e una nuova tecnica dopo la sessione serale.
La prima mattina la sala si riempie velocemente. Gruppi di occidentali si dispongono goffamente sul parquet, come cespugli arruffati di teste bionde, brune e rosse tra la foresta nera dei capelli ben pettinati e lucidi d’olio degli indiani. Nella parte anteriore della sala c’è il palco per Osho e proprio davanti al palco è stata delimitata un’area per i musicisti che suoneranno dal vivo per le meditazioni. Sopra la poltrona di Osho, un enorme striscione sospeso al soffitto recita: “Non vengo per insegnare, ma per risvegliare. Arrendetevi e io vi trasformerò. Questa è la mia promessa”. Quelle parole mi commuovono profondamente.
Ma un attimo dopo, quando Osho in persona è lì, sotto lo striscione, e parla, le sue parole non mi commuovono, ma mi gettano nel panico. Sono troppe e troppo in fretta: non c’è spazio per afferrarle, non c’è tempo per pesarle, per pensarci su. Digerire una frase significa perdere quella dopo. E come scegliere? Quale preferire? Ho troppa paura di perdermi qualcosa e, nel terrore, è proprio quello che faccio.
Inadeguato. Al suo cospetto sono assolutamente un incapace, non riesco nemmeno a capire quello che sta dicendo, eppure ho l’ardire di aspirare a essere come lui. L’immensità della mia audacia mi fa vergognare fin nel profondo. Ma ammetterlo porta con sé una sorta di pace. C’è un assestamento, come quando una grande onda che si infrange sulla sabbia, la lascia di nuovo liscia, rinfrescata e pulita. E alzo la testa a guardare Osho con un’umiltà che per me è nuova, con l’apertura e la volontà di chi ha realizzato di non sapere e vuole imparare. E poi le sue parole cominciano a penetrare in me e vedo che ora sto davvero ascoltando, non con la mente, non aggredendo le parole nervosamente come un cane attaccato a un osso, ma piuttosto bevendole, permettendo che si riversino in me, incurante del significato. E sento che mi riempiono, mi nutrono in qualche luogo interiore profondo e intimo. Mi rendo conto che Osho sta cantando la sua canzone e, rilassato, io semplicemente l’ascolto.
Le sue parole si diffondono sopra di me, scendono fino a me, mi toccano, mi accarezzano, portando con loro il profumo della sua promessa. “Io vi trasformerò”, dice lo striscione. E sento che il mio cuore si apre a Osho, come delle braccia che si allargano, chiedendogli di darmi tutto quello che sa.
Una fragranza ultraterrena
Un turbinio di movimento intorno a me mi richiama all’improvviso da un qualche luogo interiore e solo allora mi accorgo che Osho ha smesso di parlare....
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