Introduzione
Bhagwan Shree Rajneesh è una di
quelle figure che la storia ha sempre ricordato come “un enigma”: è difficile,
per quanto assurdo possa sembrare, trovare due sole persone d’accordo su chi
egli sia e su cosa rappresenti.
Sui libri pubblicati da
discepoli, studiosi, detrattori e persone realmente interessate a capire cosa
egli significhi, cosa rappresenti, non si trovano due sue descrizioni che
coincidano. E se poi qualcuno, per cercare certezze, si rivolgesse direttamente
a ciò che Bhagwan stesso ha scritto, l’enigma acquisterebbe colori ancora più
intensi, più assurdi, più contraddittori. L’interrogativo finirebbe per
diventare opprimente, in quanto ogni aggettivo risulta inadeguato, ogni
etichetta lontana. Personalmente posso dire di non aver mai conosciuto nessuno
capace di esistere al di là di ogni definizione, così come fa Bhagwan: pur non
nascondendosi, e forse per questo, pur mostrandosi per ciò che egli è, egli non
è… e col tempo ha negato tutti gli sforzi di quanti hanno voluto “associarlo” a
qualcosa. Non facendosi nessuno scrupolo a sollevare controversie.
Proprio le controversie
stimolarono la stampa a parlarne, ma anche in questo caso le contraddizioni si
sprecarono: da un lato si è voluto parlare di plagio, di una figura paterna che
strumentalizza psicolabili.
D’altro canto si continuano a
pubblicare libri, articoli, interviste, addirittura vengono riportati interi
brani firmati da Bhagwan in persona su testate di grande respiro. Inoltre,
fatto ancor più significativo, a lui continuano ad andare, a migliaia, persone
provenienti da ogni parte del mondo, e si tratta sempre di gente che ha un
livello di istruzione medio-alto (una ricerca svolta negli USA ha rivelato che
intorno a Rajneesh ruota la più alta concentrazione di laureati, 70%, e di
plurilaureati, 38%, mai registrata all’interni di un “fenomeno” religioso
contemporaneo). Come mai?
In Italia, poi, se alcuni
personaggi molto conosciuti nel mondo culturale, non sono riusciti a superare
il muro dei sentito dire, e si sono ritirati di fronte ad una immagine, creata
dai media nell’ultimo decennio, tuttavia, questi giudizi non hanno impedito ad
altri scrittori, giornalisti, uomini di cultura di firmare una lettera aperta
per sollecitare il governo italiano a concedere a Bhagwan un visto di ingresso
nel nostro paese, e molti lo hanno fatto proprio perché provano una profonda
curiosità, solleticata da tante dicerie, e desiderano incontrarlo, per toccare
con mano ciò che è, per dialogare con lui e sviluppare i temi letti nei suoi
libri: “stimolanti”, a detta di molti, “per un discorso sui valori e per
comprendere ciò che accade nell’umanità contemporanea”.
Sono prove che dimostrano come,
nonostante il susseguirsi di avvenimenti giallo rosa, e nonostante il terribile
ostracismo decretato da politiche, religioni, culture, in apparenza tanto
diverse tra loro, qualcosa di quest’uomo resta sempre limpido al di là della
cronaca, al di là delle notizie stampa, al di là di ogni giudizio possibile.
Le istituzioni stesse, se da un
lato aspirano a fare di Bhagwan un sepolto vivo nel suo stesso paese,
dimostrando una chiara volontà di rendere la vita difficile sia a lui che a
quanti desiderano andare da lui; d’altro canto devono arrendersi di fronte alla
mancanza di elementi che impedisce vere
e proprie azioni legali. Nel corso di una conferenza stampa, il Procuratore
dello Stato dell’Oregon, David Frohnmayer, affiancato da Charles Turner che
parlava a nome del Governo Federale (e questo vuol dire F.B.I.), ha ammesso che
“non è stata trovata la minima prova che dimostri la colpevolezza di Bhagwan in
nessun crimine”, e dello stesso tono è stato l’intervento del Ministro delle
Finanze al Parlamento Indiano, sul finire del 1986, allorché ha dichiarato che
“non esistono prove che confermino le dicerie legate alla figura di Bhagwan
Shree Rajneesh, di una continua evasione fiscale nel nostro paese”.
Sono due casi, ma sono notizie mai
diffuse, né dalla stampa, né dai governi che di volta in volta hanno vagliato
la richiesta di visto fatta da Bhagwan: in questi casi, si è parlato in ben
altri toni, e ci si è aggrappati a ben altri giudizi per informare la gente, o
per negare il visto d’ingresso.
Ma si tratta di fenomeni che si
assommano ad altri fenomeni, la cosa sorprendente è che nulla di tutto ciò
scalfisce quest’uomo.
Pare proprio sia inevitabile
concludere che egli vive la vita secondo “altri” canoni, fondandosi su
“qualcos’altro”, ed è proprio questa profonda sensazione che conserva comunque
inalterato l’impatto che questo Maestro continua ad avere su quanti lo hanno
incontrato o che arrivano ad incontrarlo, senza mediazioni, anche solo tramite
le sue opere, le sue parole.
E ancor oggi, nonostante tutto,
nonostante sembri che “il suo movimento è finito”, per un milione e più di
persone egli resta “la persona più
consapevole che esista oggigiorno sul pianeta terra”, “un esempio di cosa
significhi realizzare in pieno il potenziale racchiuso in ogni essere umano”,
“una fioritura rara, un Buddha, un illuminato”. E non si tratta di
“sempliciotti”: altre ricerche fatte da istituti di sociologia e
università, in Inghilterra, in Germania,
in Giappone, oltre a quelle americane “già menzionate”, paesi in cui esiste la
maggior concentrazione di discepoli di
Bhagwan Shree Rajneesh, dimostrano indiscutibilmente come le persone più attratte
da questo Maestro siano laureati, professionisti, e comunque appartenenti ai ceti medio/alto. Al punto che la comune
americana risultava avere la più alta concentrazione di laureati di tutte le
città degli Stati Uniti d’America, realtà che è rimasta ancor oggi che Bhagwan
è tornato a vivere a Puna. Con una sola differenza: i sei acri dell’Ashram di
Puna Raccolgono oggi la più alta concentrazione di laureati, provenienti da
ogni parte del mondo.
Queste realtà, frutto di immagini
e informazioni così contrastanti, spingono a chiedersi ancor di più dove stia
la verità. Chi è questa figura così paradossale? Cosa attira tanto la gente, al
punto da percorrere migliaia di chilometri, pur di sedere ai piedi di
quest’uomo? E come mai religioni e istituzioni, politi e “uomini di fede”, per
quanto lontani tra loro per idee e ideali, fanno fronte comune in tutto il
mondo, quando si tratta di condannare quest’uomo?
Come risolvere questo enigma?
Eppure, Bhagwan non è il primo
enigma di questo tipo: prima di lui molti altri Maestri hanno fatto lo stesso
scalpore, e hanno lavorato, hanno turbato, infastidito, nello stesso modo. Ma
la sequenza di enigmi non è finita: la presenza di Bhagwan è tale da far
dimenticare il suo passato, l’ambiente in cui è nato, rendere impossibile un
suo inserimento in una storia, nella cultura indiana, o meglio in una delle sue
culture.
Dietro questo enigma, esiste
qualcosa di immenso, di impagabile, che ogni libro di Bhagwan tratteggia con
sfumature che aiutano, se non altro, ad eliminare l’idea che di lui ci si è
fatta, oppure ad aggiungere nuove tinte all’idea che noi ci siamo fatti del
mondo: il processo è lo stesso, in quanto in questo lavorio, pian piano affiora
una nuova dimensione, una realtà separata; o meglio una nuova prospettiva sulla
realtà.
In questo contesto, questo libro
è eccezionale: Bhagwan si narra, chiacchiera, rivela ciò che egli è nella vita
privata, ciò che sono stati gli anni della sua formazione, e lo sfondo nel
quale è venuto pian piano maturando: affiora una vita vissuta sempre per gioco,
che mai si è piegata a causa di disagi (si veda nei primi capitoli la
descrizione che Bhagwan stesso fa del suo villaggio), e che mai sembra aver
preteso o sognato nulla che non fosse “essere se stesso”. Se esiste
attaccamento, è un attaccamento a ciò che la natura offre all’uomo: l’acqua, il
sole, la terra. Se esiste desiderio, è il desiderio di gioire di questi doni
adesso, e non rimandare a domani la possibilità di gustarli.
In queste pagine si partecipa
alla vita di un ragazzino “selvaggio”, nato nell’India Centrale, cresciuto in
libertà, e che mai sembra si sia preoccupato di farsi strada , di avere un
futuro, un avvenire, di essere riconosciuto o accettato dalla comunità in cui
vive, mai sembra essersi preoccupato del giudizio degli altri, di assorbire a
pie’ pari i valori del mondo, ma anzi, pian piano, pagina dopo pagina, ci porta
a vedere come egli acquisisse, proprio per il suo modo di vivere, una autorità
travolgente, capace di annullare le regole sociali, incurante delle barriere
culturali e geografiche, pur così profonde nella società indiana.
Che cosa gli dava tanta forza?
Vedeva forse qualcosa che gli altri non vedevano? Di certo nel ragazzo che
affiora in queste pagine si vede che esiste qualcosa di molto poco comune, eppure
se si guarda a fondo nelle sue esperienze, si nota che si tratta di
caratteristiche fin troppo umane. Amava il gioco, lo scherzo, la libertà, il
contatto con la vita, la vertigine che la vita sola sa dare. E tutto questo non
divenne mai abiezione, anzi, grazie all’aiuto di altri uomini divenne amore per
se stesso, per la vita, per le opere dell’ingegno dell’uomo, prime tra queste
la musica e le lettere.
Alcune cose non sono comuni: la
forza che lo spinge ad affrontare e a superare la paura , il profondo spirito
di esperienza, l’accettazione priva di giudizio di ciò che è la vita, e di come
si manifesta, in tutte le sue forme, l’assenza di una morale, senza per questo
cadere nell’immorale.
Sono elementi che lo portarono a
conoscersi e a conoscere la natura umana in profondità e a “lavorare”, fin da
giovane sui suoi difetti, o meglio sul suo difetto più grande: l’ego.
All’età di ventun anni, a questo
ragazzo, così ricco di vitalità, accadde qualcosa: una fusione, una comunione
co quei fenomeni vitali nei quali era cresciuto, di cui si era nutrito. A volte
mi vien da pensare che tanta attrazione verso l’armonia, fece esplodere in lui
una fiducia così travolgente con la vita, da fargli colmare ogni distanza,
rompere ogni separazione… è un fenomeno che per luogo comune è chiamato
“illuminazione”. Qui entrano in gioco nuovi elementi, nuovi misteri, nuovi
enigmi, ma non voglio parlarne, perché questa biografia, così anomala, da sola
aiuta ad entrare nell’incredibile che è l’esistenza di un illuminato e del suo
essere un Maestro. Ma altre domande seguono, man mano che l’eco mondiale della
“sua esistenza” arriva alle regioni più lontane del pianeta: cosa spinse decine
di migliaia di persone ad andare da lui? Cosa cercava quella gente? E cosa
sperimentò in quegli anni ’70 allorché Bhagwan diede vita al “Movimento del
neo-sannyas”?
Fu un fenomeno che non passò
inosservato e i giornalisti si affrettarono ad andare a curiosare in
quell’Ashram dove “ne succedevano delle belle”… e già allora la stampa si
divise: qualcuno non osava mettere su carta ciò che provava, e forse lo negava
anche a se stesso; altri, come Bernard Levin, famoso columnist del Times di
Londra, mischiavano dubbi a sincera meraviglia: “Rajneesh è di certo
un’influenza che turba profondamente”, fu la sua conclusione in un lungo
servizio pubblicato sul giornale londinese, altri ancora si lanciarono in
giudizi severi e vollero imporgli etichette meschine.
Fu uno sfruttamento del fenomeno
che non diede nessun fastidio a Bhagwan che commentò fin da allora: “Non dicono
molto su di me, quanto piuttosto su se stessi e sulla loro mente”. Un risultato
ci fu, sebbene assurdo: le presenze a Puna triplicarono. Prova che perfino
l’articolo più negativo non era capace di negare quel “qualcosa” che Bhagwan
aveva reso vitale in se stesso, e al cui contatto (basta la semplice fotografia) portava una persona
sensibile ad interrogarsi, trasformandolo in un ricercatore spirituale.
Bhagwan parlava di libertà,
dichiarava che ogni cultura appartiene all’uomo, che deve usarle tutte come
trampolini di lancio per districarsi da totem, tabù, superstizioni, paure
ataviche, pregiudizi e chissà cos’altro, per spaziare sotto il cielo: “Io
voglio che ognuno di voi diventi uno zingaro esistenziale. Nessun uomo ha
bisogno di radici: non siamo alberi. Noi siamo esseri umani!”, infiammava Bhagwan, invitando chi lo
ascoltava a spostare il fuoco d’attenzione, per abitudine fisso sull’altro e su
l mondo esterno, verso il proprio essere, alla ricerca di quella presenza
interiore che pare esistere sempre, al
di là di ogni agire e di ogni pensiero e
di ogni emozione.
E per rendere più tangibile
quell’esperienza, Bhagwan invitava ad utilizzare tutto ciò che il mondo della
terapia e della meditazione aveva escogitato, in Occidente e in Oriente,
rielaborandolo solo quanto era necessario perché fosse funzionale a questa
ricerca interiore, e adatto all’uomo contemporaneo: “Il tipo di uomo più
artificiale mai esistito sul pianeta terra”.
Sul finire degli anni ’70, in
tutto il mondo, non tardò a farsi sentire la reazione di uomini politici e
religiosi, man mano che quei ricercatori tornavano nel loro paese d’origine. Le
istituzioni temevano l’influenza di Bhagwan, in quanto rendeva ancor più vuoti
valori tanto osannati e predicati, quanto erano artificiali. Anche perché
risultava evidente che non si trattava di semplici ideali, contrapposti ad
altri “stili di vita”: nelle parole di Bhagwan affiorava qualcosa di
esistenziale e di sostanziale, che faceva vacillare quanto era vera e propria
menzogna, più che un valore o una morale: “Istituzioni millenarie temono il
confronto con me? Sono io che dovrei temere loro: ma se quanto essi vanno
predicandosi scioglie come neve al sole di fronte alle mie parole, vuol dire
che ha ben poco valore… non ha nessun significato, è ben misera cosa, ed è
giusto che venga seppellito una volta per tutte!”
E fu così che all’inizio degli
anni ’80 iniziarono un po’ dovunque, soprattutto in terra europea, delle
campagne promosse dalle “chiese” tra i fedeli, per denunciare Bhagwan come “un
pericolo pubblico”, subito seguite da battaglie legali per ostacolare
un’espansione che pareva inarrestabile: in Germania si arrivò a licenziare
arbitrariamente i sannyasin che insegnavano, al Parlamento Europeo venne
presentato un disegno di legge atto ad organizzare un’indagine internazionale e
un successivo intervento nei paesi “maggiormente colpiti dal fenomeno”, alcuni
governi infine iniziarono delle non bene definite indagini.
Qui ebbe origine
quell’opposizione che ancor oggi continua contro un uomo “colpevole” in realtà
solo di mostrare con ogni mezzo verbale la falsità, l’avidità, l’ipocrisia
nascoste dietro a idee e ideali politici e religiosi, nel mondo intero.
Eppure, nonostante i mille colpi
di scena che seguirono negli anni ’80, la curiosità dell’uomo comune mai è venuta a cadere.
E questo libro è un occasione per
trasformare quella curiosità in un incontro, anche perché prese vita in una
occasione alquanto insolita, che merita di essere ricordata: Bhagwan venne
sottoposto a cure dentistiche, nel 1981, e per la prima volta fu sottoposto a
un preparato di ossido di nitro e ossigeno, usati come analgesici. La fragilità
del suo corpo ha sempre richiesto grandi attenzioni, soprattutto nell’uso di
medicinali, per cui in quell’occasione era assistito da quattro persone: Vivek,
la sua governante; Devaraj, il suo medico personale; Ashu, la sua infermiera e
Devageet il suo dentista personale. Tutte e quattro queste persone erano
attentissime, per cogliere il benché minimo segno nel paziente.
“Bhagwan era sdraiato sulla
sedia, assolutamente rilassato”, racconta Devageet. “Gli occhi erano socchiusi
e immobili. Il suo respiro, leggerissimo, sembrava quello di un bambino, il
torace si sollevava impercettibilmente… l’unico suono nella stanza era quello prodotto
dalla membrana che controllava la respirazione.
I minuti passavano lenti. Il
silenzio era intensissimo… e ad un certo punto, tutti fummo colpiti da una
fortissima sensazione.
Guardammo Bhagwan con attenzione,
aspettando… le sue labbra iniziarono a muoversi. Non riuscendo a sentire ciò
che diceva, avvicinai l’orecchio alla sua bocca. Sembrava essere assolutamente
rilassato, al punto da farmi spavento. Di nuovo le sue labbra ripresero a
muoversi, e potei sentire flebilissime, queste parole: “E’ splendido!”
Mi alzai e tutti i presenti nella
stanza si guardarono, colpiti da quanto si sarebbe dispiegato davanti a noi nei
giorni successivi, e che ha prodotto il libro che ora avete in mano.
In quel momento, mi trovai a
scrivere quelle poche parole sussurrate e, al termine della seduta, Vivek mi
venne a chiedere che cosa avevo scritto perché non era riuscita a sentire
quello che Bhagwan diceva.
A sua volta Vivek ne parlò a
Bhagwan, il quale disse di essersi sentito benissimo dopo quella seduta, il suo
corpo era assolutamente rilassato, e che nulla mai aveva fatto così bene ai
suoi dolori alla schiena. Infine, disse a me di continuare a prendere appunti,
perché un giorno sarebbero stati composti in un libro.
Questo lavoro ha richiesto cinque
anni. La cura proseguì, e venne usata anche in seguito, quando i dolori alla
schiena di Bhagwan divennero insopportabili, e in tutto quel periodo i miei
appunti si accumularono: a volte parlava pochissimo, altre a lungo.
La cosa che più mi sconvolge è
che Bhagwan abbia trasformato anche quei momenti di dolore insopportabile in un
dono per l’umanità… e devo ammettere che quando venivamo chiamati perché i suoi
dolori erano tali da richiedere una seduta di anestesia, volavamo verso la
saletta medica, per poter viaggiare con Bhagwan nel periodo aureo che fu la sua
infanzia.
È un’esperienza che ricorderò per il resto della
mia vita. Le parole sono così scarne che non possono conservare il sapore di
quell’esperienza, unica nel suo genere: Bhagwan utilizzò le prime sedute come
strumento per sperimentare e cominicare a noi le vette della sua
consapevolezza, in forme a noi comprensibili. Ancor oggi riesco a cogliere la
sua fatica… quando parla in pubblico, egli lancia un messaggio al mondo. Qui,
parlando a un gruppo ristretto di
persone, si ha una intimità, una immediatezza, una ricchezza di percezione in
quella sfera dell’illuminazione, comunemente impercepibile al mondo.
Bhagwan rideva, scherzava, ci
rimproverava, ci prendeva in giro, giocandoci qualche scherzo, ma conservando
sempre quell’onesta innocenza che mai ho incontrato in un altro essere umano.
Nacque così un’atmosfera che nutrì moltissimo il nostro essere, e la cui eco
rimane ora ad ogni lettore, grazie agli appunti che furono conservati sulla
carta…”.
Riorganizzati, quegli appunti
vennero facilmente sistemati in quattro serie di discorsi. Nella prima Bhagwan
spettegola, e parla per lo più dello splendore del silenzio e della bellezza.
La seconda serie, invece, scruta
a fondo la fonte prima dell’antico mantra tibetano Om Mani Padme Hum: queste
due serie sono state pubblicate in un solo volume: “Gli appunti di un folle”.
La terza serie è un’affascinante
rassegna di libri, spulciati tra le migliaia letti da Bhagwan nel corso della
sua vita. Un tempo arrivava a leggerne venti in un giorno! Fu solo su consiglio
del suo medico, che dovette smettere… pur non scordando mai questo suo grande
amore, in particolare per quelle opere capaci di dare al lettore un assaggio, un
lampo di intuizione sull’ignoto; poche parole, spesso capaci di rendere viva la
luce, dar forma tangibile ed espressione ad una poesia e ad una aspirazione
verso il trascendente.
Questa serie è stata pubblicata
nel volume “I libri che ho amato”: è la visione di un Maestro nel mondo della
letteratura “dell’illuminazione”… la lettura di alcuni dei volumi menzionati
lascia semplicemente stupefatti!
La quarta serie di appunti è
raccolta in questo volume: “Bagliori di un’infanzia dorata”. Prima di ora
Bhagwan non ha mai parlato della sua infanzia, non per tenere celato qualcosa,
ma semplicemente perché, come lui stesso ha detto più volte: “Tutto ciò che
precede l’istante dell’illuminazione, per me è morto”.
In queste pagine, egli torna a
rivisitare quegli anni, affascinandoci con storie incredibili, alcune di un
umorismo travolgente, altre già allora segno di una intensità inconcepibile in
un ragazzino.
Nelle sue parole tornano a
prender vita altri esseri d’eccezione, a loro volta illuminati, che riconobbero
il suo potenziale e lo aiutarono a superare quegli anni, spesso vissuti
all’insegna del rischio sfrenato.
Un uomo che è oggi così
incredibile, non potè che essere un ragazzo incredibile e sorprendente: una
riprova sono le sue avventure in uno spaccato d’India che ricorda la vita del
villaggio e i personaggi che le diedero forma, dopo l’Indipendenza. Sono
elementi che affiorano solo per rafforzare l’ispirazione esistenziale di
Bhagwan che, nonostante tutto e tutti,
all’età di ventun anni giunse a sperimentare quel fenomeno di fusione con
l’esistenza, da noi umani chiamato illuminazione.
Da allora egli ha dedicato tutto
se stesso al risveglio dell’umanità. Risveglio che non può che essere
auspicabile al più presto, soprattutto se si guarda la miseria dell’esperienza
quotidiana, fondata, sembra, solo sulla mera gratificazione egoica e su valori
estremamente materialistici… come risultato la fine di questo secolo vede
l’umanità circondata da nemesi di forme e colori diversi, ma tutte a modo loro
asfissianti e di proporzioni terrificanti: nonostante le belle parole, il
nostro mondo sta morendo, calpestato dai nostri piedi incoscienti, mentre i
nostri cosiddetti leader politici e religiosi , non riescono a comprendere fino
a che punto i loro giochi infantili stanno compromettendo il futuro dell’intera
umanità.
Sono certo che Bhagwan non ha
scelto a caso quest’epoca per vivere la sua ultima incarnazione. Si trova tra
noi per portare luce al numero più grande
possibile di individui; a tutti coloro che sono in grado di sentire la
sua voce al di là del caos prodotto dall’umana immaturità.
Bhagwan è un uomo contemporaneo,
pienamente immerso nel nostro tempo, ma il suo canto spazia in quell’eterna
sfera armoniosa che è la bellezza dell’esistenza. Questa “biografia” ne è la prova,
e solo lui avrebbe potuto darle vita.
Sw. Devageet – Sw. Anand Videha 1988
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