domenica 26 luglio 2020

Bagliori di un'infanzia dorata


 
Introduzione

Bhagwan Shree Rajneesh è una di quelle figure che la storia ha sempre ricordato come “un enigma”: è difficile, per quanto assurdo possa sembrare, trovare due sole persone d’accordo su chi egli sia e su cosa rappresenti.
Sui libri pubblicati da discepoli, studiosi, detrattori e persone realmente interessate a capire cosa egli significhi, cosa rappresenti, non si trovano due sue descrizioni che coincidano. E se poi qualcuno, per cercare certezze, si rivolgesse direttamente a ciò che Bhagwan stesso ha scritto, l’enigma acquisterebbe colori ancora più intensi, più assurdi, più contraddittori. L’interrogativo finirebbe per diventare opprimente, in quanto ogni aggettivo risulta inadeguato, ogni etichetta lontana. Personalmente posso dire di non aver mai conosciuto nessuno capace di esistere al di là di ogni definizione, così come fa Bhagwan: pur non nascondendosi, e forse per questo, pur mostrandosi per ciò che egli è, egli non è… e col tempo ha negato tutti gli sforzi di quanti hanno voluto “associarlo” a qualcosa. Non facendosi nessuno scrupolo a sollevare controversie.
Proprio le controversie stimolarono la stampa a parlarne, ma anche in questo caso le contraddizioni si sprecarono: da un lato si è voluto parlare di plagio, di una figura paterna che strumentalizza psicolabili.
D’altro canto si continuano a pubblicare libri, articoli, interviste, addirittura vengono riportati interi brani firmati da Bhagwan in persona su testate di grande respiro. Inoltre, fatto ancor più significativo, a lui continuano ad andare, a migliaia, persone provenienti da ogni parte del mondo, e si tratta sempre di gente che ha un livello di istruzione medio-alto (una ricerca svolta negli USA ha rivelato che intorno a Rajneesh ruota la più alta concentrazione di laureati, 70%, e di plurilaureati, 38%, mai registrata all’interni di un “fenomeno” religioso contemporaneo). Come mai?
In Italia, poi, se alcuni personaggi molto conosciuti nel mondo culturale, non sono riusciti a superare il muro dei sentito dire, e si sono ritirati di fronte ad una immagine, creata dai media nell’ultimo decennio, tuttavia, questi giudizi non hanno impedito ad altri scrittori, giornalisti, uomini di cultura di firmare una lettera aperta per sollecitare il governo italiano a concedere a Bhagwan un visto di ingresso nel nostro paese, e molti lo hanno fatto proprio perché provano una profonda curiosità, solleticata da tante dicerie, e desiderano incontrarlo, per toccare con mano ciò che è, per dialogare con lui e sviluppare i temi letti nei suoi libri: “stimolanti”, a detta di molti, “per un discorso sui valori e per comprendere ciò che accade nell’umanità contemporanea”.
Sono prove che dimostrano come, nonostante il susseguirsi di avvenimenti giallo rosa, e nonostante il terribile ostracismo decretato da politiche, religioni, culture, in apparenza tanto diverse tra loro, qualcosa di quest’uomo resta sempre limpido al di là della cronaca, al di là delle notizie stampa, al di là di ogni giudizio possibile.
Le istituzioni stesse, se da un lato aspirano a fare di Bhagwan un sepolto vivo nel suo stesso paese, dimostrando una chiara volontà di rendere la vita difficile sia a lui che a quanti desiderano andare da lui; d’altro canto devono arrendersi di fronte alla mancanza di elementi  che impedisce vere e proprie azioni legali. Nel corso di una conferenza stampa, il Procuratore dello Stato dell’Oregon, David Frohnmayer, affiancato da Charles Turner che parlava a nome del Governo Federale (e questo vuol dire F.B.I.), ha ammesso che “non è stata trovata la minima prova che dimostri la colpevolezza di Bhagwan in nessun crimine”, e dello stesso tono è stato l’intervento del Ministro delle Finanze al Parlamento Indiano, sul finire del 1986, allorché ha dichiarato che “non esistono prove che confermino le dicerie legate alla figura di Bhagwan Shree Rajneesh, di una continua evasione fiscale nel nostro paese”.
Sono due casi, ma sono notizie mai diffuse, né dalla stampa, né dai governi che di volta in volta hanno vagliato la richiesta di visto fatta da Bhagwan: in questi casi, si è parlato in ben altri toni, e ci si è aggrappati a ben altri giudizi per informare la gente, o per negare il visto d’ingresso.
Ma si tratta di fenomeni che si assommano ad altri fenomeni, la cosa sorprendente è che nulla di tutto ciò scalfisce quest’uomo.
Pare proprio sia inevitabile concludere che egli vive la vita secondo “altri” canoni, fondandosi su “qualcos’altro”, ed è proprio questa profonda sensazione che conserva comunque inalterato l’impatto che questo Maestro continua ad avere su quanti lo hanno incontrato o che arrivano ad incontrarlo, senza mediazioni, anche solo tramite le sue opere, le sue parole.
E ancor oggi, nonostante tutto, nonostante sembri che “il suo movimento è finito”, per un milione e più di persone egli resta  “la persona più consapevole che esista oggigiorno sul pianeta terra”, “un esempio di cosa significhi realizzare in pieno il potenziale racchiuso in ogni essere umano”, “una fioritura rara, un Buddha, un illuminato”. E non si tratta di “sempliciotti”: altre ricerche fatte da istituti di sociologia e università,  in Inghilterra, in Germania, in Giappone, oltre a quelle americane “già menzionate”, paesi in cui esiste la maggior concentrazione di discepoli  di Bhagwan Shree Rajneesh, dimostrano indiscutibilmente come le persone più attratte da questo Maestro siano laureati, professionisti, e comunque appartenenti  ai ceti medio/alto. Al punto che la comune americana risultava avere la più alta concentrazione di laureati di tutte le città degli Stati Uniti d’America, realtà che è rimasta ancor oggi che Bhagwan è tornato a vivere a Puna. Con una sola differenza: i sei acri dell’Ashram di Puna Raccolgono oggi la più alta concentrazione di laureati, provenienti da ogni parte del mondo.
Queste realtà, frutto di immagini e informazioni così contrastanti, spingono a chiedersi ancor di più dove stia la verità. Chi è questa figura così paradossale? Cosa attira tanto la gente, al punto da percorrere migliaia di chilometri, pur di sedere ai piedi di quest’uomo? E come mai religioni e istituzioni, politi e “uomini di fede”, per quanto lontani tra loro per idee e ideali, fanno fronte comune in tutto il mondo, quando si tratta di condannare quest’uomo?
Come risolvere questo enigma?
Eppure, Bhagwan non è il primo enigma di questo tipo: prima di lui molti altri Maestri hanno fatto lo stesso scalpore, e hanno lavorato, hanno turbato, infastidito, nello stesso modo. Ma la sequenza di enigmi non è finita: la presenza di Bhagwan è tale da far dimenticare il suo passato, l’ambiente in cui è nato, rendere impossibile un suo inserimento in una storia, nella cultura indiana, o meglio in una delle sue culture.
Dietro questo enigma, esiste qualcosa di immenso, di impagabile, che ogni libro di Bhagwan tratteggia con sfumature che aiutano, se non altro, ad eliminare l’idea che di lui ci si è fatta, oppure ad aggiungere nuove tinte all’idea che noi ci siamo fatti del mondo: il processo è lo stesso, in quanto in questo lavorio, pian piano affiora una nuova dimensione, una realtà separata; o meglio una nuova prospettiva sulla realtà.
In questo contesto, questo libro è eccezionale: Bhagwan si narra, chiacchiera, rivela ciò che egli è nella vita privata, ciò che sono stati gli anni della sua formazione, e lo sfondo nel quale è venuto pian piano maturando: affiora una vita vissuta sempre per gioco, che mai si è piegata a causa di disagi (si veda nei primi capitoli la descrizione che Bhagwan stesso fa del suo villaggio), e che mai sembra aver preteso o sognato nulla che non fosse “essere se stesso”. Se esiste attaccamento, è un attaccamento a ciò che la natura offre all’uomo: l’acqua, il sole, la terra. Se esiste desiderio, è il desiderio di gioire di questi doni adesso, e non rimandare a domani la possibilità di gustarli.
In queste pagine si partecipa alla vita di un ragazzino “selvaggio”, nato nell’India Centrale, cresciuto in libertà, e che mai sembra si sia preoccupato di farsi strada , di avere un futuro, un avvenire, di essere riconosciuto o accettato dalla comunità in cui vive, mai sembra essersi preoccupato del giudizio degli altri, di assorbire a pie’ pari i valori del mondo, ma anzi, pian piano, pagina dopo pagina, ci porta a vedere come egli acquisisse, proprio per il suo modo di vivere, una autorità travolgente, capace di annullare le regole sociali, incurante delle barriere culturali e geografiche, pur così profonde nella società indiana.
Che cosa gli dava tanta forza? Vedeva forse qualcosa che gli altri non vedevano? Di certo nel ragazzo che affiora in queste pagine si vede che esiste qualcosa di molto poco comune, eppure se si guarda a fondo nelle sue esperienze, si nota che si tratta di caratteristiche fin troppo umane. Amava il gioco, lo scherzo, la libertà, il contatto con la vita, la vertigine che la vita sola sa dare. E tutto questo non divenne mai abiezione, anzi, grazie all’aiuto di altri uomini divenne amore per se stesso, per la vita, per le opere dell’ingegno dell’uomo, prime tra queste la musica e le lettere.
Alcune cose non sono comuni: la forza che lo spinge ad affrontare e a superare la paura , il profondo spirito di esperienza, l’accettazione priva di giudizio di ciò che è la vita, e di come si manifesta, in tutte le sue forme, l’assenza di una morale, senza per questo cadere nell’immorale.
Sono elementi che lo portarono a conoscersi e a conoscere la natura umana in profondità e a “lavorare”, fin da giovane sui suoi difetti, o meglio sul suo difetto più grande: l’ego.
All’età di ventun anni, a questo ragazzo, così ricco di vitalità, accadde qualcosa: una fusione, una comunione co quei fenomeni vitali nei quali era cresciuto, di cui si era nutrito. A volte mi vien da pensare che tanta attrazione verso l’armonia, fece esplodere in lui una fiducia così travolgente con la vita, da fargli colmare ogni distanza, rompere ogni separazione… è un fenomeno che per luogo comune è chiamato “illuminazione”. Qui entrano in gioco nuovi elementi, nuovi misteri, nuovi enigmi, ma non voglio parlarne, perché questa biografia, così anomala, da sola aiuta ad entrare nell’incredibile che è l’esistenza di un illuminato e del suo essere un Maestro. Ma altre domande seguono, man mano che l’eco mondiale della “sua esistenza” arriva alle regioni più lontane del pianeta: cosa spinse decine di migliaia di persone ad andare da lui? Cosa cercava quella gente? E cosa sperimentò in quegli anni ’70 allorché Bhagwan diede vita al “Movimento del neo-sannyas”?
Fu un fenomeno che non passò inosservato e i giornalisti si affrettarono ad andare a curiosare in quell’Ashram dove “ne succedevano delle belle”… e già allora la stampa si divise: qualcuno non osava mettere su carta ciò che provava, e forse lo negava anche a se stesso; altri, come Bernard Levin, famoso columnist del Times di Londra, mischiavano dubbi a sincera meraviglia: “Rajneesh è di certo un’influenza che turba profondamente”, fu la sua conclusione in un lungo servizio pubblicato sul giornale londinese, altri ancora si lanciarono in giudizi severi e vollero imporgli etichette meschine.
Fu uno sfruttamento del fenomeno che non diede nessun fastidio a Bhagwan che commentò fin da allora: “Non dicono molto su di me, quanto piuttosto su se stessi e sulla loro mente”. Un risultato ci fu, sebbene assurdo: le presenze a Puna triplicarono. Prova che perfino l’articolo più negativo non era capace di negare quel “qualcosa” che Bhagwan aveva reso vitale in se stesso, e al cui contatto (basta la  semplice fotografia) portava una persona sensibile ad interrogarsi, trasformandolo in un ricercatore spirituale.
Bhagwan parlava di libertà, dichiarava che ogni cultura appartiene all’uomo, che deve usarle tutte come trampolini di lancio per districarsi da totem, tabù, superstizioni, paure ataviche, pregiudizi e chissà cos’altro, per spaziare sotto il cielo: “Io voglio che ognuno di voi diventi uno zingaro esistenziale. Nessun uomo ha bisogno di radici: non siamo alberi. Noi siamo esseri umani!”,  infiammava Bhagwan, invitando chi lo ascoltava a spostare il fuoco d’attenzione, per abitudine fisso sull’altro e su l mondo esterno, verso il proprio essere, alla ricerca di quella presenza interiore che pare  esistere sempre, al di là  di ogni agire e di ogni pensiero e di ogni emozione.
E per rendere più tangibile quell’esperienza, Bhagwan invitava ad utilizzare tutto ciò che il mondo della terapia e della meditazione aveva escogitato, in Occidente e in Oriente, rielaborandolo solo quanto era necessario perché fosse funzionale a questa ricerca interiore, e adatto all’uomo contemporaneo: “Il tipo di uomo più artificiale mai esistito sul pianeta terra”.
Sul finire degli anni ’70, in tutto il mondo, non tardò a farsi sentire la reazione di uomini politici e religiosi, man mano che quei ricercatori tornavano nel loro paese d’origine. Le istituzioni temevano l’influenza di Bhagwan, in quanto rendeva ancor più vuoti valori tanto osannati e predicati, quanto erano artificiali. Anche perché risultava evidente che non si trattava di semplici ideali, contrapposti ad altri “stili di vita”: nelle parole di Bhagwan affiorava qualcosa di esistenziale e di sostanziale, che faceva vacillare quanto era vera e propria menzogna, più che un valore o una morale: “Istituzioni millenarie temono il confronto con me? Sono io che dovrei temere loro: ma se quanto essi vanno predicandosi scioglie come neve al sole di fronte alle mie parole, vuol dire che ha ben poco valore… non ha nessun significato, è ben misera cosa, ed è giusto che venga seppellito una volta per tutte!”
E fu così che all’inizio degli anni ’80 iniziarono un po’ dovunque, soprattutto in terra europea, delle campagne promosse dalle “chiese” tra i fedeli, per denunciare Bhagwan come “un pericolo pubblico”, subito seguite da battaglie legali per ostacolare un’espansione che pareva inarrestabile: in Germania si arrivò a licenziare arbitrariamente i sannyasin che insegnavano, al Parlamento Europeo venne presentato un disegno di legge atto ad organizzare un’indagine internazionale e un successivo intervento nei paesi “maggiormente colpiti dal fenomeno”, alcuni governi infine iniziarono delle non bene definite indagini.
Qui ebbe origine quell’opposizione che ancor oggi continua contro un uomo “colpevole” in realtà solo di mostrare con ogni mezzo verbale la falsità, l’avidità, l’ipocrisia nascoste dietro a idee e ideali politici e religiosi, nel mondo intero.
Eppure, nonostante i mille colpi di scena che seguirono negli anni ’80, la curiosità dell’uomo  comune mai è venuta a cadere.
E questo libro è un occasione per trasformare quella curiosità in un incontro, anche perché prese vita in una occasione alquanto insolita, che merita di essere ricordata: Bhagwan venne sottoposto a cure dentistiche, nel 1981, e per la prima volta fu sottoposto a un preparato di ossido di nitro e ossigeno, usati come analgesici. La fragilità del suo corpo ha sempre richiesto grandi attenzioni, soprattutto nell’uso di medicinali, per cui in quell’occasione era assistito da quattro persone: Vivek, la sua governante; Devaraj, il suo medico personale; Ashu, la sua infermiera e Devageet il suo dentista personale. Tutte e quattro queste persone erano attentissime, per cogliere il benché minimo segno nel paziente.
“Bhagwan era sdraiato sulla sedia, assolutamente rilassato”, racconta Devageet. “Gli occhi erano socchiusi e immobili. Il suo respiro, leggerissimo, sembrava quello di un bambino, il torace si sollevava impercettibilmente… l’unico suono nella stanza era quello prodotto dalla membrana che controllava la respirazione.
I minuti passavano lenti. Il silenzio era intensissimo… e ad un certo punto, tutti fummo colpiti da una fortissima sensazione.
Guardammo Bhagwan con attenzione, aspettando… le sue labbra iniziarono a muoversi. Non riuscendo a sentire ciò che diceva, avvicinai l’orecchio alla sua bocca. Sembrava essere assolutamente rilassato, al punto da farmi spavento. Di nuovo le sue labbra ripresero a muoversi, e potei sentire flebilissime, queste parole: “E’ splendido!”
Mi alzai e tutti i presenti nella stanza si guardarono, colpiti da quanto si sarebbe dispiegato davanti a noi nei giorni successivi, e che ha prodotto il libro che ora avete in mano.
In quel momento, mi trovai a scrivere quelle poche parole sussurrate e, al termine della seduta, Vivek mi venne a chiedere che cosa avevo scritto perché non era riuscita a sentire quello che Bhagwan diceva.
A sua volta Vivek ne parlò a Bhagwan, il quale disse di essersi sentito benissimo dopo quella seduta, il suo corpo era assolutamente rilassato, e che nulla mai aveva fatto così bene ai suoi dolori alla schiena. Infine, disse a me di continuare a prendere appunti, perché un giorno sarebbero stati composti in un libro.
Questo lavoro ha richiesto cinque anni. La cura proseguì, e venne usata anche in seguito, quando i dolori alla schiena di Bhagwan divennero insopportabili, e in tutto quel periodo i miei appunti si accumularono: a volte parlava pochissimo, altre a lungo.
La cosa che più mi sconvolge è che Bhagwan abbia trasformato anche quei momenti di dolore insopportabile in un dono per l’umanità… e devo ammettere che quando venivamo chiamati perché i suoi dolori erano tali da richiedere una seduta di anestesia, volavamo verso la saletta medica, per poter viaggiare con Bhagwan nel periodo aureo che fu la sua infanzia.
È  un’esperienza che ricorderò per il resto della mia vita. Le parole sono così scarne che non possono conservare il sapore di quell’esperienza, unica nel suo genere: Bhagwan utilizzò le prime sedute come strumento per sperimentare e cominicare a noi le vette della sua consapevolezza, in forme a noi comprensibili. Ancor oggi riesco a cogliere la sua fatica… quando parla in pubblico, egli lancia un messaggio al mondo. Qui, parlando  a un gruppo ristretto di persone, si ha una intimità, una immediatezza, una ricchezza di percezione in quella sfera dell’illuminazione, comunemente impercepibile al mondo.
Bhagwan rideva, scherzava, ci rimproverava, ci prendeva in giro, giocandoci qualche scherzo, ma conservando sempre quell’onesta innocenza che mai ho incontrato in un altro essere umano. Nacque così un’atmosfera che nutrì moltissimo il nostro essere, e la cui eco rimane ora ad ogni lettore, grazie agli appunti che furono conservati sulla carta…”.
Riorganizzati, quegli appunti vennero facilmente sistemati in quattro serie di discorsi. Nella prima Bhagwan spettegola, e parla per lo più dello splendore del silenzio e della bellezza.
La seconda serie, invece, scruta a fondo la fonte prima dell’antico mantra tibetano Om Mani Padme Hum: queste due serie sono state pubblicate in un solo volume: “Gli appunti di un folle”.
La terza serie è un’affascinante rassegna di libri, spulciati tra le migliaia letti da Bhagwan nel corso della sua vita. Un tempo arrivava a leggerne venti in un giorno! Fu solo su consiglio del suo medico, che dovette smettere… pur non scordando mai questo suo grande amore, in particolare per quelle opere capaci di dare al lettore un assaggio, un lampo di intuizione sull’ignoto; poche parole, spesso capaci di rendere viva la luce, dar forma tangibile ed espressione ad una poesia e ad una aspirazione verso il trascendente.
Questa serie è stata pubblicata nel volume “I libri che ho amato”: è la visione di un Maestro nel mondo della letteratura “dell’illuminazione”… la lettura di alcuni dei volumi menzionati lascia semplicemente stupefatti!
La quarta serie di appunti è raccolta in questo volume: “Bagliori di un’infanzia dorata”. Prima di ora Bhagwan non ha mai parlato della sua infanzia, non per tenere celato qualcosa, ma semplicemente perché, come lui stesso ha detto più volte: “Tutto ciò che precede l’istante dell’illuminazione, per me è morto”.
In queste pagine, egli torna a rivisitare quegli anni, affascinandoci con storie incredibili, alcune di un umorismo travolgente, altre già allora segno di una intensità inconcepibile in un ragazzino.
Nelle sue parole tornano a prender vita altri esseri d’eccezione, a loro volta illuminati, che riconobbero il suo potenziale e lo aiutarono a superare quegli anni, spesso vissuti all’insegna del rischio sfrenato.
Un uomo che è oggi così incredibile, non potè che essere un ragazzo incredibile e sorprendente: una riprova sono le sue avventure in uno spaccato d’India che ricorda la vita del villaggio e i personaggi che le diedero forma, dopo l’Indipendenza. Sono elementi che affiorano solo per rafforzare l’ispirazione esistenziale di Bhagwan che, nonostante tutto  e tutti, all’età di ventun anni giunse a sperimentare quel fenomeno di fusione con l’esistenza, da noi umani chiamato illuminazione.
Da allora egli ha dedicato tutto se stesso al risveglio dell’umanità. Risveglio che non può che essere auspicabile al più presto, soprattutto se si guarda la miseria dell’esperienza quotidiana, fondata, sembra, solo sulla mera gratificazione egoica e su valori estremamente materialistici… come risultato la fine di questo secolo vede l’umanità circondata da nemesi di forme e colori diversi, ma tutte a modo loro asfissianti e di proporzioni terrificanti: nonostante le belle parole, il nostro mondo sta morendo, calpestato dai nostri piedi incoscienti, mentre i nostri cosiddetti leader politici e religiosi , non riescono a comprendere fino a che punto i loro giochi infantili stanno compromettendo il futuro dell’intera umanità.
Sono certo che Bhagwan non ha scelto a caso quest’epoca per vivere la sua ultima incarnazione. Si trova tra noi per portare luce al numero più grande  possibile di individui; a tutti coloro che sono in grado di sentire la sua voce al di là del caos prodotto dall’umana immaturità.
Bhagwan è un uomo contemporaneo, pienamente immerso nel nostro tempo, ma il suo canto spazia in quell’eterna sfera armoniosa che è la bellezza dell’esistenza. Questa “biografia” ne è la prova, e solo lui avrebbe potuto darle vita.
Sw. Devageet – Sw. Anand Videha 1988

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