di Cesare Sacchetti
Sottomarini che si confrontano nelle profondità dell’oceano e che danno vita a delle vere e proprie battaglie marine.
Non si tratta della trama di un romanzo di spie partorito dalla mente di Tom Clancy o di uno scenario accaduto ai tempi della guerra fredda quando sottomarini sovietici e americani si fronteggiavano periodicamente per il controllo dei mari mondiali.
Stavolta si tratta di uno scontro che sarebbe accaduto per davvero e che avrebbe visto direttamente coinvolti gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro.
Per comprendere meglio cosa è accaduto dobbiamo citare un episodio di cui si è recentemente parlato nelle cronache dei quotidiani internazionali.
Recentemente è stato riportato infatti che un sottomarino nucleare americano, lo USS Connecticut, avrebbe urtato un oggetto non meglio identificato nelle acque del mare Cinese Meridionale.
L’incidente avrebbe provocato il ferimento di almeno undici marinai americani a bordo del sommergibile, e ha suscitato le proteste di Pechino che ha diramato una nota di protesta ufficiale accusando di “irresponsabilità” la controparte americana.
La Cina ha chiesto più dettagli su quanto è accaduto e ha domandato se l’urto con questo misterioso oggetto abbia portato alla dispersione di materiale radioattivo nelle profondità marine.
Washington non ha dato nessuna spiegazione al riguardo, ma questa versione dei fatti sarebbe apparentemente soltanto quella che nel gergo delle cancellerie internazionali è nota come “storia di copertura”.
Una fonte altamente qualificata del Pentagono si è messa in contatto con questo blog e ha raccontato quello che sarebbe veramente accaduto.
Secondo questa fonte, il sottomarino americano non avrebbe colpito alcun oggetto nel tratto di mare in questione, ma i danni ricevuti sarebbero la diretta conseguenza di un vero e proprio scontro militare avvenuto in quella zona tra Stati Uniti e Cina nella notte tra il 2 e il 3 ottobre.
Le dispute territoriali intorno al Mar Cinese Meridionale
Prima di procedere però con quanto rivelato dalla fonte militare qualificata del Pentagono, dobbiamo tracciare un breve contesto geopolitico e storico riguardo a questo territorio marino per comprendere quanto esso sia importante e al tempo stesso tremendamente conteso dai Paesi che si affacciano sul Mare Cinese Meridioanle.
Le isole Spratly sono una miriade di piccoli atolli al largo del mare in questione, e il loro status territoriale è stato oggetto di innumerevoli controversie tra i Paesi dell’area.
Questi atolli sono contesi da diversi Paesi del Sud Est asiatico, quali Cina, Filippine, Vietnam, Taiwan e Malesia.
Ognuna di queste nazioni rivendica più o meno per sé il controllo delle piccole isolette così come dell’intero tratto marino.
La Cina sostiene che quasi tutta l’intera zona sia di esclusiva sua competenza territoriale in base al cosiddetto principio di quella che è stata denominata come “linea dei nove trattini”, ovvero una sorta di demarcazione stabilita da Pechino stessa nel 1947.
Attraverso questa delimitazione la dittatura comunista cinese si è praticamente assegnata larghissima parte del Mare Cinese Meridionale.
Gli altri Paesi limitrofi hanno contestato più volte quella che è apparsa una demarcazione puramente arbitraria e non fondata sui principi del diritto internazionale.
Non sono stati infatti rari gli episodi di tensione tra la Cina e i suoi vicini. A questo proposito, si ricorda lo scontro avvenuto nel 1974 tra la Cina e il Vietnam del Sud per il controllo delle isole Paracelso, sempre nello stesso tratto costiero, che costò la vita a 18 marinai cinesi e a altri 53 vietnamiti e portò la Cina a controllare le isole in questione.
La situazione non si è mai veramente risolta nemmeno negli anni in seguito a questo scontro militare tanto che nel 1988 vi fu un’altra battaglia marina ancora una volta tra la Cina e il Vietnam per assumere il controllo del Johnson South Reef, un piccolo atollo appartenente proprio alle isole Spratly.
In questa occasione, il bilancio fu persino più pesante dello scontro avvenuto nel 1974. Stavolta furono 70 marinai vietnamiti a perdere la vita mentre la Cina da parte sua vide ridotte al minimo le perdite umane con un solo marinaio deceduto.
Anche in questa circostanza Pechino uscì vincitrice e riuscì ad assumersi il controllo di un altro pezzo delle isole Spratly.
Stiamo parlando quindi di una zona marina che si può definire senza dubbio come la più contesa e disputata al mondo. Le ragioni di questo conflitto risiedono anche nella importanza commerciale di questo territorio.
Un terzo delle merci mondiali passano da qui e avere il controllo del Mare Cinese Meridionale assegna in pratica un peso enorme in termini geopolitici al Paese che controlla questo fondamentale snodo per i traffici marittimi internazionali.
Un’altra ragione delle feroci dispute tra i Paesi del Sud Est asiatico è che nei fondali marini di questa zona si pensa che ci siano enormi giacimenti di petrolio e gas naturale che darebbero un enorme vantaggio competitivo al Paese che riuscisse ad accaparrarseli in termini di indipendenza energetica.
La giurisprudenza internazionale ha provato comunque a mettere ordine nel caos di rivendicazioni incrociate dei Paesi che si contendono questa zona, e la recente pronuncia del 2016 emessa dal tribunale della corte permanente di arbitrato dell’Aia sembra aver portato più chiarezza.
Il tribunale in questione ha stabilito nel corso di un giudizio tra le Filippine e la stessa Cina che le rivendicazioni territoriali di Pechino sull’intero mare meridionale sono prive di fondamento.
La cosiddetta linea dei nove trattini della Cina viola tutte le convenzioni sul diritto marittimo internazionale e supera di gran lunga il limite delle acque territoriali delle 12 miglia marine stabilito dalla convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
Il deep state di Washington ha costruito la potenza economica della Cina
Gli Stati Uniti nel corso degli anni hanno assunto una posizione più distensiva nei confronti della Cina comunista riguardo a questi conflitti nel Mar Meridionale della Cina.
Dagli anni’90 in poi i rapporti tra Washington e Pechino sono stati pressoché idilliaci perché gli Stati Uniti hanno in pratica consentito alla Cina di giungere alla sua enorme esplosione economica e commerciale praticamente senza ostacoli.
Il cosiddetto deep state di Washington, ovvero l’apparato delle lobby mondialiste che da decenni rappresenta il vero governo degli Stati Uniti, non si è opposto in alcun modo alla crescita del gigante cinese.
Al contrario, il cuore della finanza internazionale di Wall Street ha rivestito un ruolo chiave nello sviluppo dell’economia cinese. La finanza anglosassone è stata il principale finanziatore della Cina e questo non è avvenuto per una mera casualità.
I grandi poteri mondialisti hanno voluto dare vita alla potenza economica della dittatura economista cinese per avviare la globalizzazione. La globalizzazione è fondata sul principio del commercio senza ostacoli soprattutto da Paesi dove il costo del lavoro è irrisorio rispetto a quello del mondo Occidentale.
L’idea dei circoli di Davos e del Club di Roma è quella di portare avanti una deindustrializzazione senza precedenti nel mondo Occidentale per spostare l’intera catena produttiva in Cina e in altri Paesi asiatici.
In questo modo si giunge direttamente alla fine del lavoro per come lo si è conosciuto e i cittadini occidentali per poter sopravvivere sarebbero costretti ad accettare il reddito universale, l’elemosina di governo che verrebbe data solo e soltanto a coloro che accetterebbero di entrare a far parte della società autoritaria globale.
Questa è la ragione per la quale le cosiddette battaglie pseudoambientaliste vengono promosse prevalentemente in Europa e negli Stati Uniti mentre la Cina e l’India, che sono i Paesi con il più alto impatto inquinante, non vengono minimamente sfiorate dalle critiche degli attivisti climatici quali Greta Thunberg che in quest’ottica recitano la parte degli utili idioti nelle mani di Davos e degli altri gruppi globalisti.
È per questo che gli Stati Uniti ai tempi dell’amministrazione democratica dei Clinton non si opposero in alcun modo all’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ed è per questa stessa ragione che gli Stati Uniti sotto le successive amministrazioni non hanno mai assunto una posizione veramente ostile nei confronti di Pechino.
La Cina già allora fu scelta dalle grandi famiglie della finanza internazionale quali i Warburg, i Rothschild e i Rockefeller come il Paese “modello” del Nuovo Ordine Mondiale.
Tuttavia come abbiamo fatto notare nei precedenti contributi, questo rapporto si sta incrinando perché la Cina non sembra tanto interessata a favorire il dominio di queste grandi famiglie ma piuttosto a sedere essa stessa sul trono di un impero economico globale.
L’amministrazione Trump ha comunque messo fine all’idillio tra Cina e Stati Uniti come ha spiegato lo stesso accademico cinese Di Dongsheng in un video che ha fatto il giro della rete negli ultimi anni.
Donghsheng è il vice decano della scuola di relazioni internazionali dell’università di Renmin. Nel corso di uno dei suoi interventi pubblici, il professore cinese ha spiegato sostanzialmente come le lobby finanziarie che controllano gli Stati Uniti da tempo abbiano di fatto contribuito ad assicurare al meglio gli interessi della Cina stessa a discapito di quelli americani.
Il potere che domina l’America ha pertanto lavorato alacremente per costruire la superpotenza economica di Pechino.
Questa condizione è giunta ad una fine dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016.
La nuova dottrina di “fare di nuovo grande l’America” ha separato gli USA dalla sfera di controllo dei poteri mondialisti, e l’America sotto l’amministrazione Trump ha fatto ciò che i suoi predecessori non hanno mai fatto.
Trump ha tutelato gli interessi nazionali degli Stati Uniti e ha riaffermato il principio dell’inviolabilità della sovranità nazionale di fronte a questi poteri che hanno utilizzato l’America come una nazione al servizio degli interessi privati delle lobby finanziarie transnazionali.
Lo scontro tra Stati Uniti e Cina non si è nemmeno arrestato sotto la cosiddetta amministrazione Biden per una serie di ragioni che sembrano avere a che vedere con la firma di Trump dell’atto contro le insurrezioni avvenuta intorno allo scorso gennaio.
Attraverso questo atto, Trump avrebbe di fatto congelato l’amministrazione in carica e consegnato il potere ai militari in attesa che le perizie elettorali consentano a Trump di tornare ufficialmente in carica e annullare così l’enorme frode elettorale che ha portato all’elezione illegittima del candidato democratico, Joe Biden.
Una delle numerose conferme che abbiamo in questo senso è quella che viene dalla politica estera di Biden che piuttosto che distendere i rapporti con la dittatura comunista cinese li ha resi ancora più tesi.
Quanto avvenuto al largo delle isole Spratly sarebbe soltanto un’altra ulteriore conferma del fatto che Joe Biden non è l’uomo che sta portando avanti l’amministrazione presidenziale né tantomeno lo sono i poteri globalisti che hanno consentito alla sua “elezione”. Biden non risponde ai comandi. È qualcun altro a guidare questa amministrazione. Qualcuno che non ha intenzione di seguire le direttive del deep state di Washington.
Questo affresco geopolitico era indispensabile per permetterci di contestualizzare meglio lo scontro tra Stati Uniti e Cina al largo delle isole Spratly.
La missione segreta dello USS Connecticut: distruggere un obbiettivo militare cinese
Secondo la fonte del Pentagono citata precedentemente, la storia dell’incidente che ha visto coinvolto lo USS Connecticut sarebbe completamente diversa da quella ufficiale. All’equipaggio del sommergibile americano sarebbe stata assegnata una missione militare top-secret. Quella di individuare e distruggere una base militare cinese su uno degli atolli in questione.
Non ci sarebbe stata pertanto alcuna collisione con un oggetto misterioso. Lo USS Connecticut avrebbe raggiunto le coste vicino alle isole Spratly, e avrebbe sganciato un missile per sabotare il sistema di comunicazioni della base cinese in questione.
L’operazione, riferisce la fonte militare americana, avrebbe avuto successo ma non senza ricevere danni dalla controparte cinese.
I cinesi avrebbero risposto all’attacco e i danni subiti dallo USS Connecticut sarebbero la diretta conseguenza della controffensiva.
Tuttavia pare che la tecnologia stealth della quale è dotato questo sommergibile avrebbe limitato di molto i danni.
La reazione della Cina non si sarebbe fatta attendere e sarebbe stata furiosa. Lo stato maggiore cinese è stato messo in stato di massima allerta ed era pronto anche a intraprendere un’azione ancora più vigorosa contro gli Stati Uniti.
Solo una telefonata giunta da Pechino, pare dai massimi vertici del governo cinese, avrebbe riportato la calma e impedito di arrivare ad uno scontro militare tra Stati Uniti e Cina dalle conseguenze imprevedibili.
La storia riportata dai media internazionali sarebbe pertanto soltanto una copertura per nascondere quanto accaduto, e per impedire che l’episodio venga reso noto all’opinione pubblica probabilmente per contenere la possibilità di una escalation militare tra i due Paesi.
Tutta questa situazione sarebbe stata riportata in un rapporto classificato consegnato ai quartier generali della NATO a Bruxelles.
Washington e Pechino non sarebbero mai stati quindi così vicini ad uno scontro militare e probabilmente non è affatto azzardato affermare che una situazione così tesa tra superpotenze mondiali non si registrava dai tempi della guerra fredda tra USA e URSS.
Tuttavia, queste rivelazioni già clamorose sarebbero superate da quello che è accaduto nei giorni successivi.
Abbiamo avuto modo di vedere nei giorni scorsi un blackout senza precedenti dei social di proprietà di Mark Zuckerberg.
La spiegazione ufficiale fornita dalla società è quella che ci sarebbe stato un “problema di configurazione”.
Secondo la stessa fonte del Pentagono, Facebook avrebbe subito un massiccio attacco cibernetico attuato dalla Cina come ritorsione per quanto accaduto pochi giorni prima al largo delle isole Spratly.
Se questa ricostruzione è corretta, Pechino non avrebbe danneggiato direttamente il campo di Donald Trump e i militari a lui fedeli, ma piuttosto un social che il deep state di Washington avrebbe comunque cercato di colpire indipendentemente da questo attacco cibernetico.
La cosiddetta informatrice di Facebook, Frances Haugen, che sta testimoniando in questi giorni al Congresso contro il social americano è direttamente legata a gruppi di potere del partito democratico.
Gli uomini dei piani alti del mondialismo non sono per nulla soddisfatti di come Zuckeberg sta gestendo il social che, a loro dire, gli è stato praticamente dato in gestione. A questo proposito, George Soros, peso massimo della finanza speculativa internazionale, disse chiaramente lo scorso anno che Facebook andava tolto dalla guida di Zuckerberg perché l’imprenditore non stava facendo un buon lavoro nel censurare i contenuti sgraditi al pensiero unico mondialista.
Se questo scenario complessivo è corretto, tutto questo non farebbe altro che rafforzare quanto abbiamo visto in altre occasioni.
C’è una battaglia sotterranea che si sta combattendo tra il grande potere mondialista, la Cina comunista e l’apparato militare che risponde a Donald Trump.
Questa battaglia è ciò che influenza ciò che avviene in superficie.
Quello che noi vediamo affiorare nella superficie è soltanto la minima parte di quanto avviene nelle profondità del sistema.
Questa battaglia si combatte ogni giorno lontano dagli schermi dei media di regime che hanno il compito di descrivere un mondo immaginario che non esiste nella vera realtà del mondo dietro le quinte che non viene mai raccontato al grande pubblico.
Honoré de Balzac sosteneva che esistevano due tipi di storie. Una era quella falsificata fornita al grande pubblico. L’altra era quella tenuta nascosta, segreta, che determina le vere cause degli eventi.
Quanto sta accadendo recentemente nel periodo storico nel quale ci troviamo è la ennesima conferma che aveva effettivamente ragione.
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