27 Dicembre 2022
Raccolta e consumo della medicina sacra dei nativi americani
Nella Sierra Madre occidentale del Messico esiste ancora un popolo dalle origini antichissime, una minoranza etnica chiamata Huicholes, la cui spiritualità contempla la raccolta e il consumo del Peyote, un cactus dagli effetti allucinogeni molto forti. Loro credono fortemente che l’utilizzo di questa pianta medicinale li aiuti a comunicare con gli dei, a conoscere la storia degli antenati e a prevenire ciò che avverrà in futuro tramite sogni premonitori.
Avevamo sentito parlare del deserto Wirikuta da un caro amico che aveva avuto l’opportunità di assistere a una cerimonia con l’etnia Huichol e ci aveva “preparato” un po’: raccomandazioni sul dove sostare e come viversi il tutto più serenamente, contando che non avevamo mai provato il peyote che però aveva iniziato ad affascinarci molto tempo prima attraverso i racconti di Don Juan di Castaneda.
Per i Huicoles la Trinità è composta dal Mais, dal Cervo e dal Peyote che si fondono in una sola divinità: il Cervo blu. I primi due rappresentano il sostentamento vitale mentre il peyote aiuta ad incontrare la divinità massima che sa come sanare le ferite psichiche e fisiche. Il peyote, quindi, non viene inteso come una droga a scopo ricreativo ma come una pianta medicale che ha come scopo quello di andare in profondità nella psiche umana. Secondo la concezione Huichol esistono due tipi di malattie: la prima è quella portata dagli spagnoli che va curata con la medicina scientifica, l’altra è quella originaria della Sierra e va curata con la medicina tradizionale sciamanica.
Ogni persona che arriva fin qui ha un suo motivo, unico e personale, per assumere il peyote. Per risolvere una situazione che affligge da anni? Assolutamente. Per ricevere risposte a domande che assillano? Certo. Per guarire da una malattia sia fisica che mentale? Ancora di più. Niente deve, però, avere a che fare con la ricerca di un effetto ricreativo. Bisogna avere un’intenzione molto forte, fissata nella mente e vissuta nel cuore, un qualcosa su cui la pianta possa lavorare.
È IL PEYOTE CHE TROVA TE E NON IL CONTRARIO
A detta dei nativi, nel deserto sacro di Wirikuta di Peyote se ne trovano sempre meno. La colpa sarebbe di una società canadese dedita all’estrazione di metalli preziosi che per la sua attività avrebbe consumato drasticamente l’acqua preziosa da quelle parti, provocando un disastro ambientale. Inoltre, gli scarti dei rifiuti contenenti cianuro, avrebbero contaminato ulteriormente l’area riducendo la crescita del Peyote fino alla quasi totale scomparsa. Anche per questo, dal 1988 il deserto di Wirikuta, in cui ci addentriamo per una delle esperienze che ricorderemo tra le più illuminati della nostra vita, è stato dichiarato riserva ecologica naturale e culturale dal governo messicano.
Così con una riserva d’acqua e armati di cappello, bastone e indumenti lunghi per proteggerci dal caldo e dalle spine dei cactus, ci avventuriamo lungo i sentieri impolverati che partono da San Luis Potosí, non prima di aver appreso le basi per questo viaggio. Gli effetti psichedelici del peyote sono molteplici e differenti da persona a persona ma l’avvertenza è la stessa per tutti: bisogna fare molta attenzione perché assumerlo con paura e timore innesca effetti spiacevoli come nausea, vomito e diarrea.
La ricerca della pianta, inoltre, ha delle regole precise che vanno rispettate: il primo peyote non va toccato; il secondo indica la direzione in cui procedere e solo il terzo è quello da assumere. Così, giunti a quello giusto, dopo aver chiesto il permesso alla Madre Terra, chiudiamo gli occhi ed esprimiamo la nostra intenzione mentalmente a chiare lettere.
Al momento dell’incisione mi trema un po’ la mano. Con il coltello taglio la parte superiore del peyote e mi sembra di affondare la lama nel burro. Ricopro con cura la parte finale con la terra, metto dell’acqua affinché ricresca nuovamente, ringrazio la Pacha Mama e inizio a ripulire la parte superiore togliendo tutta la peluria, i piccoli puntini e la parte in mezzo prima di mangiarlo. Mastico un pezzo. E un altro. E alla fine lo mangio tutto. Cerco di tenere il boccone da un lato cosicché non vada a finire sulla lingua, ma è troppo tardi: il sapore si sprigiona in tutta la mia bocca e l’amaro inizia a farsi spazio come fossero 10 pastiglie di paracetamolo assunte nello stesso momento. Ingoio. La parte più difficile è andata. Non sono per niente preoccupata, anzi, sono tranquilla e consapevole che non mi succederà niente di grave. La medicina farà il suo corso.
È la volta di Matteo, il mio compagno, lo guardo ma sono certa che andrà bene, d’altronde non aspettava altro che questo momento. Scrupolosamente segue tutti i passaggi e pezzo dopo pezzo, ingoia anche lui il suo peyote, storcendo un po’ il naso per via del terribile sapore. Ci guardiamo intorno e siamo solo noi, lì, consapevoli di essere nel posto giusto al momento giusto. Chiudiamo gli occhi e facciamo un respiro profondo.
Dopo neanche un’oretta, complice il fatto di essere a stomaco vuoto, i colori iniziano a diventare più vividi, i suoni sembrano attraversarci la pelle e la sensazione di fluttuare sulla terra si accentua sempre di più. Io mi sento bene: nessun tipo di percezione è cambiata o si è dilatata nel tempo. L’unica cosa che sento è un profondo senso di benessere e consapevolezza interiore. Mi sento certa del nostro percorso, e coinvolta dal momento. Inizio a piangere di gioia. Guardo Matteo e lui ricambia il mio sorriso, completamente in pace con se stesso. Si mette un po’ a ridere, ma si emoziona anche lui vedendomi così coinvolta e, abbracciandomi forte, mi ringrazia di aver condiviso un’esperienza del genere insieme. Questo viaggio, fisico e introspettivo al tempo stesso, inizia a scendere piano piano e dopo circa 8-10 ore ci rendiamo conto di esser tornati in “noi stessi”, un ritorno liscio come l’olio.
UN’ESPERIENZA PER TUTTI
A quel punto capisco perché questo popolo crede fermamente in questa medicina e la utilizza da centinaia di migliaia di anni per curare i mali delle persone: il peyote ha la capacita di risanare cuore e mente, ti permette di entrare in connessione con l’esterno ma soprattutto con te stesso. Non ti fornisce risposte ma ti permette di accoglierle mostrandoti che in realtà sono sempre state lì. Come dicono i nativi, quello che le piante ci mostrano è già dentro di noi. Noi sappiamo già tutto ma non sempre vediamo le cose per quello che sono ed è lì, allora, che entrano in gioco le piante, per aiutarti, per ampliare la mente e intensificare le emozioni.
Essere a conoscenza del fatto che persone sono guarite da malattie in seguito all’assunzione di questa pianta ci dà modo di pensare a come mai, nel mondo occidentale, siamo cosi dipendenti da pillole per tutto quando invece Madre Natura ci dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno. È triste riconoscere che abbiamo perso questo legame ed è sorprendente, al tempo stesso, notare come i nativi americani stiano mantenendo la loro conoscenza e la loro connessione con la natura.
Probabilmente basterebbe guardare un po’ più a loro per placare un po’ della nostra irrequietezza.
Testo e foto di Nutshell Travel
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