4 Settembre 2022
Di Cesare Sacchetti
E così alla fine non c’è stato nessun colpo di scena come ventilavano i media mainstream. Non c’è stato nessun cambio di fronte all’ultimo momento che potesse riportare in vita l’esecutivo Draghi.
I media nelle ore che hanno preceduto l’ingresso di Mario Draghi a palazzo Madama hanno provato a scrivere un romanzo nel quale alla fine c’era il “lieto fine”, ovviamente per gli interessi dello stato profondo italiano che sosteneva l’esecutivo dell’uomo del Britannia.
Non si è trattato altro che di una pura messinscena, peraltro di bassissima lega. La crisi è finita con la caduta del governo perché l’uomo che aveva voluto questo esito sin dal principio era proprio lo stesso Draghi.
In queste ore, i media stanno scrivendo una nuova falsa narrazione. Quella secondo la quale l’ex governatore della BCE sarebbe stato espulso dalla politica in una sorta di “draghicidio” così come vuole far intendere Lucia Annunziata, giornalista appartenente alle fila dell’istituto Aspen, il think tank della famiglia Rockefeller che governa la politica italiana.
L’epilogo di questa storia era già scritto dal febbraio di quest’anno e ci era capitato di anticiparlo sulle pagine di questo blog. Non perché chi scrive sia dotato di qualche particolare dote taumaturgica. Semplicemente si è provato a seguire le regole che ogni buon giornalista indipendente dovrebbe seguire.
Ci si è affidati a fonti qualificate, alla logica e al buon senso. Mario Draghi era stato chiamato dai poteri finanziari per portare a termine un determinato compito.
L’ex governatore della BCE è un esperto in liquidazioni e dismissioni. È questo il suo privilegiato campo di azione ed è attraverso la famigerata svendita del 1992 a bordo del panfilo Britannia della Regina Elisabetta che la carriera di Draghi finì per decollare negli anni successivi.
A Draghi la finanza anglosassone, o forse sarebbe meglio dire anglosionista, aveva chiesto di portare a termine la “missione” iniziata trent’anni addietro.
Spolpare economicamente ciò che restava dell’Italia agganciandola al cappio dei prestiti a interesse del cosiddetto PNRR e, al tempo stesso, procedere poi ad un altro tipo di devastazione, quella che ha assunto le forme della campagna vaccinale.
Non si contano i danni subiti dai sieri distribuiti dal governo Draghi. Sieri che analisi scientifiche indipendenti hanno provato contenere il grafene, una sostanza tossica per l’organismo e che le case farmaceutiche hanno messo nei “vaccini” senza dichiararlo.
È uno scandalo così grosso che non potrà non richiedere una seria commissione d’inchiesta sia sugli organismi che hanno autorizzato tale distribuzione, governo ed Aifa, sia sulle case farmaceutiche che hanno messo in atto un reato di gravissima portata; quello dell’attentato alla salute pubblica.
A Draghi erano stati questi compiti e lui, da “buon” banchiere centrale che ha un cuore, ma che pulsa solo quando si tratta di gonfiare il portafoglio, ha eseguito senza alcuna remora.
C’era però un accordo, nemmeno troppo tacito. Alla fine del “lavoro”, o quando buona parte di esso fosse stato già completato, la sua “ricompensa” era quella di essere trasferito al Colle.
Questo l’originario patto con il mondo della massoneria. Patto che è stato infranto. La politica ha preferito lasciare Draghi lì dove si trovava. La situazione è sfuggita di mano quando le proteste popolari e il malcontento nei confronti dell’esecutivo e dei partiti che lo sostenevano ha raggiunto vette senza precedenti.
Ovunque Draghi si spostasse, veniva accolto da salve di fischi. L’uomo del Britannia non è abituato a tali pressioni. Lui è più abituato a lavorare dietro le quinte, a stare seduto nelle fredde stanze della BCE e ad eseguire il compito degli ambienti finanziari stando lontano dai riflettori della opinione pubblica.
Draghi ha molti difetti ed è probabilmente l’uomo che ha inferto i maggiori danni economici e sanitari all’Italia nella storia di questo Paese, però non è uno stolto.
Sapeva a che gioco stava giocando la politica. Sapeva che alla politica, mai stata così debole e separata dal Paese reale, faceva comodo avere un parafulmine dietro il quale potersi nascondere.
È questa la ragione per la quale l’ex presidente del Consiglio ha passato gli ultimi sei mesi a lavorare al suo piano di fuga. Un piano che idealmente avrebbe dovuto portarlo verso i lidi della NATO o dell’Unione europea, ma in entrambi i casi le porte per lui sono rimaste saldamente sbarrate.
Draghi inseguiva un pretesto per lasciare palazzo Chigi
Ciò non gli ha fatto cambiare minimamente idea. La sponda, o meglio il pretesto per uscire, gli è giunto da Conte e dal suo sbrindellato M5S che non ha partecipato al voto di fiducia lo scorso 14 luglio. Impossibile a questo proposito non notare l’ironia delle date. In uno dei giorni più cari alla massoneria, quello che portò alla presa della Bastiglia, cade un esecutivo espressione proprio di quei poteri.
A volte la coincidenza delle date può forse voler dire qualcosa di più di una semplice coincidenza, e può consentire di vedere una mano soprannaturale che guida il fiume della storia.
Draghi avrebbe potuto tranquillamente proseguire senza il M5S. Il suo governo aveva i numeri per continuare e non aveva bisogno della partecipazione dei grillini per poter esistere. Invece l’ex presidente del Consiglio ha prontamente rassegnato le dimissioni e lì si è avuta la conferma di quanto ci era capitato di osservare in precedenza. A Draghi serviva il pretesto dietro il quale ripararsi per occultare la sua reale e ferma intenzione di lasciare.
Nulla è cambiato il 20 luglio, quando si è presentato davanti all’aula del Senato. Nel suo discorso, l’uomo del Britannia ha immediatamente alzato la posta in gioco chiedendo come condizione imprescindibile per proseguire la ricostituzione dell’originario “patto di unità nazionale” che in realtà non è stato altro che l’atto finale di devozione dell’intera classe politica italiana alla causa del forum di Davos.
Successivamente, Draghi ha rilanciato ancora di più, se possibile, nel suo discorso mettendo tra i punti dell’agenda di governo il sostegno all’Ucraina attraverso la fornitura di armi, la revisione del reddito di cittadinanza, la riforma delle pensioni e la concessione delle spiagge.
È stato un vero e proprio guanto di sfida rivolto ai punti sensibili del M5S e della Lega. Draghi sapeva che questi due partiti, prosciugati dal tracollo di consensi degli ultimi due anni, non potevano permettersi di dire sì alle sue richieste. Draghi in pratica ha chiesto ai grillini e ai leghisti di spararsi alle tempie, e l’ex governatore della BCE sapeva perfettamente che entrambi gli avrebbero ovviamente detto di no.
È stato quindi come agitare uno straccio rosso davanti ad un toro, ma Draghi voleva che quel toro caricasse e colpisse.
E così è stato. Lega e M5S hanno ricevuto il messaggio e si sono rifiutate di votare la fiducia all’esecutivo. C’è stata quindi una convergenza di interessi di Draghi, della Lega e del M5S dal momento che a tutti faceva comodo che la crisi si chiudesse così.
L’uomo del Britannia è riuscito a lasciare palazzo Chigi nascondendosi dietro il paravento della politica che non ha voluto assecondare le sue richieste, mentre Lega e M5S provocano lo strappo nel tentativo di andare alle urne e cercare di salvare quella poca base elettorale rimastagli.
Lo scenario internazionale: la fine della globalizzazione
Adesso la domanda che è sulla bocca di tutti è questa: cosa accadrà? Per poter dare una risposta completa ed esaustiva, è necessario allargare lo sguardo sull’orizzonte internazionale che è quello che orienta a sua volta il corso della politica italiana.
La classe dirigente della seconda Repubblica e le sue successive mutazioni è probabilmente la più spregevole compagine di capitani di ventura e mercenari che si sia mai vista nella storia di questo Paese.
Essa non ha avuto remora alcuna negli ultimi 30 anni ad eseguire tutte le richieste che giungevano da Oltreoceano e Oltremanica. Londra e Washington ordinavano, e costoro prontamente eseguivano anche se questi ordini significavano mandare al macero l’immenso patrimonio economico che questo Paese aveva accumulato precedentemente grazie alle politiche dell’economia mista ispirate alla dottrina sociale della Chiesa e allo Stato imprenditore.
Occorrevano dei sicari spietati che eseguissero fedelmente il copione della globalizzazione che prevedeva appunto la morte economica, e morale, dell’Italia. Giunse così la generazione dei Prodi, Amato, Ciampi e D’Alema, il cosiddetto braccio sinistro della globalizzazione che massacrò il Paese attraverso l’austerità per poi trascinarlo nel baratro dell’euro e della fine della sovranità monetaria.
La musica non cambiò nemmeno negli anni 2000 con i governi di centrodestra che a parte la resistenza flebile del 2011 finì poi per aprire le porte del Paese ad un altro sicario economico, Mario Monti.
Negli anni successivi, lo spartito non cambiò nemmeno di una virgola perché qualsiasi personaggio si sia seduto sulla poltrona di presidente del Consiglio ha sempre finito con l’eseguire gli ordini di questi poteri.
A palazzo Chigi, c’era il pilota automatico di gruppi quali il Bilderberg e Davos. Venne il 2020 e venne il più grave attacco perpetrato contro l’Italia da quel potere che le stesse massonerie definiscono come “Nuovo Ordine Mondiale”.
In Italia si applicarono le restrizioni COVID tra le più dure al mondo. Tali ambienti hanno in odio l’Italia per tutto ciò che essa rappresenta sul piano religioso e storico e l’attacco fu particolarmente violento. La classe politica non si oppose ancora una volta. Fece in modo che questi piani potessero riuscire prima attraverso il governo Conte e poi attraverso quello Draghi, giunto per dare la pugnalata finale.
Il piano sarebbe riuscito soltanto ad una condizione. Che al di fuori dei confini si fosse proceduto sulla stessa via. Si sarebbe dovuto dare una spinta decisiva e definitiva alla globalizzazione degli anni 90 attraverso la fine degli Stati nazionali. Tutto ciò non è accaduto. Non c’è stata la stretta di mano di tale potere autoritario globale.
Per dirla con le parole di un personaggio che ha servito questo sistema di potere per oltre 30 anni, Massimo D’Alema, si è presa “una gigantesca vista”. D’Alema afferma esplicitamente che “avevamo tutti pensato che con la fine della guerra fredda e il crollo del comunismo ci sarebbe stato un nuovo ordine mondiale. Ma c’era un deficit di politica ora riempito dal ritorno brutale del Novecento e dell’Ottocento.”
Ciò significa che coloro che si sono posti al servizio di tale piano eversivo, si sono resi conti che i disegni originari non si sono attuati. Ci sono state forze che si sono opposte alla sua realizzazione specialmente da quando alla Casa Bianca è iniziata l’era Trump nel 2016 che ha messo fine alla partecipazione dell’America, la prima potenza mondiale, all’esecuzione del piano che avrebbe dovuto dare vita al governo globale.
La farsa pandemica avrebbe dovuto portare a questo fine, ma gli attori che si sono opposti erano troppi e troppo influenti. Si sono opposti gli Stati Uniti, si è opposta la Russia, e si è opposta persino la Cina che ha consumato un divorzio da quelle élite occidentali che hanno di fatto avuto un ruolo decisivo nel costruire la sua espansione economica.
Si è invece entrati in una fase interamente nuova. Non più una accelerazione della globalizzazione, ma piuttosto una de-globalizzazione e la leadership di politici quali Vladimir Putin, Xi Jinping, Victor Orban, Jair Bolsonaro, Narendra Modi, e Recep Erdogan ha dato una accelerazione impressionante a questo fenomeno.
Ciò non vuol dire che ognuno di questi leader, specialmente nel caso del presidente turco e cinese, siano dei modelli di assoluta moralità, ma è indubbio che questa alleanza allargata dei BRICS ha un minimo comun denominatore. Quello di garantire la sovranità degli Stati nazionali e di spostare il centro delle decisioni dall’unipolarismo atlantico a quello del multipolarismo internazionale.
Tale fase porta con sé la progressiva perdita d’influenza della finanza internazionale e vediamo che questo processo è già in atto. Goldman Sachs ha registrato una perdita di 2,6 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre e BlackRock, il più grande fondo di investimenti al mondo, ha perduto l’astronomica cifra di 1,7 trillioni di dollari.
Si sta chiudendo un’epoca, quella del globalismo, e se ne sta aprendo un’altra, quella del ritorno degli Stati nazionali sulla scena mondiale.
La classe politica italiana priva di protezioni internazionali
In questa storica transizione, la classe politica italiana si ritrova scoperta, nuda e disorientata. Essa aveva puntato tutto su Davos e ora si ritrova con un pugno di mosche e senza più elettori. Il conto da pagare lasciato dai due esecutivi Conte e Draghi è altissimo. Ci sono morti sul piatto, morti causati dalle politiche dei due governi e nessuno si illuda che sarà possibile ripartire come se nulla fosse.
Gli stessi italiani ormai guardano con assoluta diffidenza e ostilità a tutti i partiti. Sanno che ognuno di essi è compartecipe delle loro sofferenze. C’è poi un altro elemento che rende ancora più vulnerabile questa classe politica, ed è quello della mancanza del suo garante internazionale a Washington.
E’ il potere del governo parallelo degli Stati Uniti che ha assicurato la permanenza al potere del sistema politico italiano, ma a Washington non ci sono più i referenti di un tempo.
La cosiddetta amministrazione Biden non ha cambiato nulla, perché gli Stati Uniti e lo stesso governo americano sembrano guidati da altre forze che non sono più quelle del cosiddetto stato profondo.
Dunque ovunque si guardi intorno, la politica vede vuoto e si impaurisce. Si impaurisce perché sa che sarà chiamata a rispondere del più grave attacco mai perpetrato alla sovranità della nazione italiana e non ci sarà nessuno che verrà in suo soccorso.
Verso la fine della democrazia liberale?
Sono già iniziate le rese dei conti interne alle bande dei partiti che si accusano a vicenda di scelte che vanno in interessi opposti e contrari. È solo il principio. Nei prossimi mesi tali conflitti interni aumenteranno e l’appuntamento delle urne in programma per il prossimo settembre si rivelerà un probabile bagno di sangue.
I partiti rischiano di arrivare completamente consumati dalle loro faide e da quello che si preannuncia come un astensionismo record. C’è poi da considerare la variabile degli scandali internazionali, quali Spygate e Italiagate, che pendono sulla testa dell’intero stato profondo italiano. La crisi delle istituzioni liberali e democratiche non è una passeggera o di poco conto. Essa è profonda e strutturale. Sullo sfondo c’è quindi sì un reset, ma è quello della politica italiana. L’esito più probabile a questo punto sembra essere quello di una tabula rasa della stessa democrazia liberale.
Il futuro immediato sarà quindi attraversato dalla instabilità ma essa sarà un fenomeno necessario per potersi scrollare il fardello di un sistema che ha causato questo cumulo di macerie.
Un sistema che trova tutti i suoi errori nella stessa Repubblica liberaldemocratica del 1946-1948, creazione spuria che nulla ha a che vedere con i valori fondanti cristiani e romani della nazione e della civiltà italiana.
La transizione di disordine servirà con ogni probabilità per poi poter giungere all’ordine successivo, quello di un Paese finalmente restaurato e che torni ad ispirarsi alla sua unica e storica identità che gli ha permesso di avere un primato morale nel mondo.
Sono in molti a chiedersi chi saranno gli uomini che guideranno tale processo. Saranno probabilmente uomini che ancora oggi non sono sulla scena pubblica ma che possono mettersi al servizio dell’Italia e degli italiani per guidare il Paese verso il suo risanamento economico e morale.
È una fase storica unica quella che l’Italia e il mondo stanno vivendo. Sta passando un fiume che va in una determinata direzione e quando ciò accade non bisogna assolutamente mettersi controcorrente. Occorre lasciarsi guidare e restare saldi durante il passaggio.
La corrente sta conducendo l’Italia verso la ricostruzione graduale della sua sovranità perduta. Ciò che c’è da fare in questa fase, è quella di guardare al patrimonio fondante di valori del Paese. Lì c’è la risposta su ciò che va fatto. Lì c’è la rotta da seguire.
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