domenica 18 maggio 2014

Neurobiologia vegetale

Le piante sono sessili, ma non immobili e insensibili. Anzi, presentano sofisticate modalità di interazione con l’ambiente e di comunicazione intra e interspecifica ed è proprio questo il campo di indagine di un’insolita disciplina: la neurobiologia vegetale.
di Valentina Murelli
Partiamo con un quiz: qual è l’organismo più grande del pianeta? Molti probabilmente risponderanno «la balena». E invece sbaglieranno, perché il più grande è la sequoia gigante. Una pianta. Del resto, è facile dimenticarsi delle piante, o addirittura considerarle organismi di serie B, con la giustificazione che non si muovono e non si fanno sentire. Anche questi però sono errori, e piuttosto grossolani. Le piante si muovono eccome, solo che i loro movimenti, a differenza di quelli degli animali, sono “sul posto” (pensiamo alle giovani piante che orientano la crescita in base alla direzione della luce solare) e sono in genere molto lenti. Con qualche eccezione, come quella della Mimosa pudica, che al minimo contatto chiude le foglie molto velocemente. O come gli scatti rapidissimi delle piante carnivore. Quanto al fatto che “non si fanno sentire”, be’, molto dipende dalla nostra capacità di “ascoltare”. Le piante, infatti, hanno un ricchissimo sistema di comunicazione, costituito da una grande varietà di molecole (amminoacidi, zuccheri, metaboliti secondari, sostanze volatili) con cui “dialogano” con le proprie vicine o con gli animali. E sempre sul fronte comunicazione, è degli ultimi anni la scoperta di un sistema interno di trasmissione delle informazioni a livello delle radici che può essere considerato in qualche modo analogo al sistema nervoso degli animali. Tra gli artefici di questa scoperta c’è Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze e uno dei fondatori della nuova disciplina della neurobiologia vegetale.
Professor Mancuso: ma allora anche le piante hanno un sistema nervoso?
Facciamo subito chiarezza: nelle piante non c’è un analogo “fisico” del tessuto nervoso, quel tessuto costituito da neuroni e altre cellule nervose e specializzato nella trasmissione di segnali elettrici. Eppure possiamo parlare di neurobiologia vegetale perché c’è un’analogia funzionale. In altre parole le piante non hanno neuroni, ma alcune cellule vegetali – in particolare le cellule dell’apice radicale, cioè la punta della radice – sono in grado di produrre segnali elettrici sotto forma di potenziali d’azione (variazioni della differenza di potenziale tra interno ed esterno della membrana plasmatica, NdR) e di trasmetterli alle cellule vicine. Ricordiamo che già Charles Darwin riteneva che gli apici radicali rappresentassero una sorta di “cervello diffuso” delle piante, in grado di percepire segnali dall’ambiente e di “prendere decisioni” sulle strategie da seguire. Oggi sappiamo che le radici possiedono anche meccanismi per l’elaborazione e la trasmissione di questi segnali.
Negli animali uno degli elementi chiave della trasmissione nervosa è rappresentato dai neurotrasmettitori, le molecole che trasportano l’informazione da un neurone all’altro a livello delle sinapsi. C’è qualcosa di simile anche tra i vegetali?
Sì: molti neurotrasmettitori presenti nel nostro cervello (glutammato, serotonina, dopamina, acetilcolina ecc.) sono presenti anche nelle piante. In questo caso non li chiamiamo neurotrasmettitori, perché non stanno in un cervello e perché non sempre la loro funzione è nota, però ci sono. E per alcuni è stato mostrato un ruolo fondamentale in meccanismi di trasmissione delle informazioni. Per esempio: una radice ha la costante necessità di sapere con estrema precisione che cosa accade nell’ambiente circostante. Questa “conoscenza” le deriva dall’attività degli apici radicali, ciascuno dei quali è in grado di “sentire”, cioè percepire e valutare, almeno 15 parametri chimici e fisici differenti (temperatura, grado di salinità, grado di umidità e così via), che devono essere integrati ed elaborati per individuare la direzione di crescita ottimale. È stato scoperto che il glutammato è fondamentale per questa elaborazione: se manca oppure è presente in eccesso, la radice si comporta come se avesse perso il senso dell’orientamento e cresce in modo anomalo.
In che modo lei e il suo gruppo di ricerca siete arrivati a capire che gli apici radicali possiedono la capacità di integrazione, elaborazione e trasmissione di informazioni?
Il punto di svolta è stato la scoperta che una particolare zona degli apici radicali – la zona di transizione – consuma molto più ossigeno delle zone vicine, una condizione che è indizio di forte richiesta energetica e, dunque, della presenza di qualche intensa attività. Eppure, all’inizio la zona di transizione non sembrava partecipare ad attività a forte dispendio energetico, come può essere la moltiplicazione cellulare. E allora: perché la zona di transizione consuma tanto ossigeno se – in apparenza – non fa nulla di speciale? La nostra ipotesi era che possedesse un’attività analoga a quella dei neuroni e in effetti con il tempo abbiamo mostrato che le cellule di questa zona sono in grado di generare e trasmettere potenziali d’azione.
Con quali approcci e strumenti affrontate in laboratorio questi argomenti? E con quali organismi modello lavorate?
Usiamo metodi e strumenti di differenti discipline. Dalla biologia cellulare abbiamo “preso” i microscopi, sia ottici (compreso il microscopio confocale a fluorescenza, che permette di visualizzare nel campione differenti molecole opportunamente marcate), sia elettronici. Dall’elettrofisiologia abbiamo mutuato l’uso di microelettrodi (dotati di punte con dimensioni inferiori al millesimo di millimetro), gli strumenti che servono a misurare i potenziali d’azione nei neuroni. Noi li utilizziamo per studiare la produzione di segnali elettrici in singole cellule vegetali, oppure i flussi ionici, cioè i movimenti degli ioni verso l’interno e l’esterno delle cellule. Infine, dalla biologia molecolare abbiamo imparato ad analizzare e manipolare DNA e RNA. Lavoriamo molto con Arabidopsis thaliana, una piccola pianta versatile e di cui si conoscono molti dettagli. Però lavoriamo anche con altri modelli: tabacco, mais e pomodoro come piante erbacee e olivo e vite come piante arboree.
Gli apici radicali possono dunque essere considerati, in metafora, il “cervello” della pianta. Ma perché proprio gli apici? E quali sono, allora, le “attività cognitive” vegetali?
Una delle ragioni più ovvie per spiegare perché le piante hanno sviluppato un’attività simil neurale a livello degli apici sta nel fatto che questi risiedono sottoterra: il suolo, infatti, è un ambiente più stabile rispetto all’atmosfera per temperatura e umidità, e per di più protetto dalla predazione animale e dalla radiazione ultravioletta solare. Quanto alle attività “cognitive”, alcune le abbiamo già accennate: per esempio, la capacità di raccogliere informazioni ambientali, integrarle e reagire di conseguenza. Le piante, poi, mostrano grandi capacità di comunicazione intra e interspecifica, ma anche di apprendimento (e dunque di memoria) e di calcolo di costi-benefici.
Mi sta dicendo che le piante ricordano?
Non nel senso comune che diamo alla parola ricordare, naturalmente: le piante non ricordano volti o emozioni, ma possono ricordare particolari condizioni ambientali che hanno incontrato in passato e la risposta fisiologica adeguata per quelle condizioni. Per capire meglio che cosa intendo dire partiamo dagli animali. Per “misurare” la capacità di apprendimento di un animale, in genere gli si sottopone un problema più volte e si valuta se la sua capacità di risolverlo migliora nel tempo. Se questo accade, diciamo che l’animale ha imparato a riconoscere il problema – quindi lo ricorda – e a reagire di conseguenza. Ecco: lo stesso si può fare con le piante.
Quali problemi si possono sottoporre a una pianta?
Si tratta di problemi intesi come condizioni ambientali, per esempio una condizione di difficoltà, di stress, come la presenza di un’eccessiva salinità nel suolo. La prima volta che una pianta incontra questa condizione mette in atto una serie di risposte metaboliche necessarie a permetterle di sopravvivere; se la condizione torna alla normalità (la salinità si abbassa), anche il metabolismo della pianta lo fa. Ma supponiamo ora che torni a verificarsi una situazione di alta salinità: se la pianta reagirà più in fretta, mettendo in atto più velocemente le risposte metaboliche necessarie a sopravvivere, significa che avrà ricordato il caso e avrà imparato come reagire al meglio. Ebbene: è stato verificato che questo è esattamente quello che accade.
Diceva che le piante possono effettuare calcoli di rapporti costi-benefici. Può fare un esempio?
Supponiamo di osservare una pianta che cresce accanto a un’altra. Le due competono per un bene essenziale per la vita vegetale: la luce solare, fonte primaria di energia. Supponiamo che la “nostra” pianta sia più bassa dell’altra e che quindi riceva meno luce. Questa è una tipica situazione in cui la pianta deve prendere una decisione: restare com’è, accontentandosi della poca luce che le arriva, oppure investire risorse nella crescita, nel tentativo di superare l’altezza della sua competitrice? Per il mio modo di vedere, scegliere questa seconda strada significa tentare una previsione del futuro: “immaginare” che i sacrifici richiesti per allungarsi saranno ricompensati dalla maggior disponibilità di luce.
Ma come si fa a sapere che l’allungamento della pianta è frutto di un calcolo e non di un meccanismo automatico, geneticamente determinato?
Certo, il dubbio può venire. Però proviamo a pensare a che cosa accade se, invece che un solo fattore – la luce solare – ne prendiamo in considerazione contemporaneamente altri, proprio come deve fare la pianta: salinità, umidità, concentrazione di azoto, presenza di parassiti e così via. Di fronte a un quadro così complesso, la “decisione” sulla direzione in cui crescere (puntare di più sullo sviluppo fogliare? Sull’allungamento del fusto? Sullo sviluppo delle radici? Sulle difese contro i patogeni?) non può essere una risposta automatica, ma deve dipendere dall’integrazione ed elaborazione delle informazioni, fino a stabilire quale necessità, di volta in volta, è più stringente.
Ci può dire qualcosa anche sulla comunicazione tra piante?
Comunicazione è sicuramente una delle parole chiave della neurobiologia vegetale. Abbiamo visto che le cellule di un’unica pianta comunicano tra di loro, in modi analoghi a quelli che finora si ritenevano esclusivi degli animali. Le piante, però, sono abilissime anche nel comunicare con altri organismi della stessa specie o di altre. Le radici, per esempio, secernono nel suolo una gran quantità di sostanze che costituiscono veri e propri messaggi di segnalazione, e lo stesso fanno le foglie e i fiori, con molecole volatili. In alcuni casi si tratta di “armi chimiche”, dirette contro le piante circostanti con l’obiettivo di ostacolarne crescita e sviluppo, o contro predatori, per allontanarli. Altri segnali, invece, sono “amichevoli”, e servono per attirare impollinatori o per avvertire altre piante della propria comunità della presenza di pericoli: numerosi studi hanno mostrato che le piante attaccate da insetti erbivori o da patogeni emettono sostanze volatili in grado di segnalare il pericolo alle piante vicine, dando loro il tempo di prepararsi per affrontarlo, con modifiche della propria fisiologia che le rendano più resistenti.
Ma non converrebbe a una pianta sottoposta all’attacco da parte di un patogeno concentrarsi sulla sua risposta, senza perdere tempo e risorse per avvisare gli altri? Non le converrebbe essere egoista piuttosto che altruista?
Consideriamo il problema in ambito evolutivo e immaginiamo di avere una pianta infestata “egoista”, cioè concentrata solo a difendere sé stessa. Poiché non ha avvertito le piante vicine, è molto probabile che anche queste finiranno con l’essere attaccate dal patogeno che, di conseguenza, rimarrà “in zona” e potrà tornare a infestare più volte la pianta egoista. Non solo: in seguito all’infestazione, le vicine possono morire, e allora la nostra pianta egoista, anche se rimasta in vita, non avrà nessuno nei dintorni con cui riprodursi. Insomma, proprio come nel mondo animale, anche in quello vegetale ci sono situazioni in cui conviene, evolutivamente parlando, essere altruisti.
Le piante non comunicano solo all’interno del loro mondo, ma anche con gli animali…
È proprio così, basti pensare ai segnali visivi (i colori) e olfattivi che emettono i fiori per attirare gli insetti e indurli in questo modo a effettuare il servizio di impollinazione. E ancora: molte piante attaccate da predatori o da patogeni producono sostanze repulsive nei confronti del nemico, oppure in grado di attirare predatori del nemico stesso (secondo la nota logica “il nemico del mio nemico è mio amico”). Tra le più comuni, lo fanno per esempio il tabacco, il pomodoro, le melanzane. Questa proprietà e quella di avvertimento alle piante vicine possono essere sfruttate in ambito agrario: se inondiamo una coltura con un “messaggio di avvertimento”, la prepariamo all’attacco, rispetto al quale sarà più resistente.
Senta professore, dopo tutte queste informazioni una domanda viene spontanea: le piante sentono dolore?
Esiste una specie di convenzione scientifica secondo la quale questa è una domanda che non ci si deve proprio porre. Io però ritengo davvero improbabile che organismi così complessi siano privi di un sistema in grado di distinguere il “bene” dal “male” (inteso come qualcosa di pericoloso per la sopravvivenza), che è proprio la funzione fondamentale del dolore. Seguendo questo ragionamento, mi sembra dunque probabile che le piante possano soffrire anche se, allo stato attuale delle conoscenze, non possiamo dire “come”, né sappiamo in che modo affrontare il problema: è possibile che abbiano meccanismi di percezione di ciò che è bene o male per la loro vita molto differenti dai nostri.
Piante in orbita
La forza di gravità è il parametro fisico che più di tutti ha plasmato la crescita delle piante nel corso della loro storia evolutiva: le radici crescono verso il basso e fusti e foglie verso l’alto proprio come precisa risposta fisiologica a questa forza. Ma qual è esattamente la catena di messaggi cellulari e molecolari che indica a una pianta dove si trovano rispettivamente l’alto e il basso? Per rispondere a questa domanda, da qualche anno il gruppo di ricerca di Stefano Mancuso partecipa ad alcune attività dell’Agenzia spaziale europea (Esa) che consentono di ottenere condizioni di alterazione della gravità (microgravità e ipergravità), come i voli parabolici. Le informazioni raccolte con queste indagini potrebbero avere significative applicazioni pratiche: «Se vogliamo andare su Marte (un viaggio spaziale che richiederebbe anni, NdR) non possiamo pensare di farlo senza le piante, per almeno tre motivi», chiarisce il ricercatore. «Primo: perché producono di continuo ossigeno. Secondo: perché sono alla base della catena alimentare, quindi potrebbero offrire cibo “fresco”. Terzo: perché potrebbero contribuire a mantenere serenità nel gruppo di astronauti, costretti alla convivenza forzata per tempi lunghissimi». Quello delle interazioni tra gli astronauti è il vero punto critico di campagne di questo tipo e alcuni studi in cui sono state simulate a Terra le condizioni di un viaggio su Marte hanno mostrato che la presenza di piantine e la necessità di prendersene cura riducono notevolmente i conflitti. «In assenza totale e prolungata di gravità, una pianta tende a crescere in modo caotico, buttando germogli e radici in tutte le direzioni. Capire che cosa regola la risposta alla gravità potrebbe permettere di intervenire su questi meccanismi, facilitando una crescita “ordinata” della pianta anche nello spazio», conclude Mancuso.
Mozart tra i filari
Montalcino, in Toscana, patria del famoso Brunello, uno dei vini più pregiati d’Italia. Qui, passeggiando tra i vigneti di alcuni produttori, può capitare di trovarsi immersi non solo tra i grappoli, ma anche nella musica: Mozart, Vivaldi, musica barocca. Non è una stravaganza, ma un esperimento scientifico e tra i gruppi di ricerca che ci lavorano c’è anche quello di Stefano Mancuso. «L’idea è semplice: i suoni non sono altro che vibrazioni e sappiamo che le piante sono perfettamente in grado di percepire vibrazioni, attraverso particolari strutture cellulari dette canali meccanosensibili», spiega Mancuso. Non è ancora del tutto chiaro a che cosa serva questa percezione, ma un’ipotesi è che si tratti di un modo per “sentire” il passaggio dell’acqua nel terreno. Il senso degli esperimenti condotti a Montalcino è dunque capire che cosa succede a una pianta sottoposta a vibrazioni sonore di particolari frequenze: a proposito, la scelta del repertorio musicale non ha valore scientifico, ma di “gusto”. I primi risultati stanno arrivando: «Sembra che le viti esposte alla musica maturino una decina di giorni prima delle altre: un comportamento interessante per i produttori, che temono il maltempo in caso di vendemmie tardive». Altre ricerche suggeriscono che le vibrazioni sonore potrebbero proteggere le piante da insetti patogeni, interferendo con il loro comportamento riproduttivo.
http://magazine.linxedizioni.it/tag/neurobiologia-vegetale/ 

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