Le piante sono sessili, ma non immobili e insensibili. Anzi,
presentano sofisticate modalità di interazione con l’ambiente e di
comunicazione intra e interspecifica ed è proprio questo il campo di
indagine di un’insolita disciplina: la neurobiologia vegetale.
di Valentina Murelli
Partiamo
con un quiz: qual è l’organismo più grande del pianeta? Molti
probabilmente risponderanno «la balena». E invece sbaglieranno, perché
il più grande è la sequoia gigante. Una pianta. Del resto, è facile
dimenticarsi delle piante, o addirittura considerarle organismi di serie
B, con la giustificazione che non si muovono e non si fanno sentire.
Anche questi però sono errori, e piuttosto grossolani. Le piante si
muovono eccome, solo che i loro movimenti, a differenza di quelli degli
animali, sono “sul posto” (pensiamo alle giovani piante che orientano la
crescita in base alla direzione della luce solare) e sono in genere
molto lenti. Con qualche eccezione, come quella della Mimosa pudica,
che al minimo contatto chiude le foglie molto velocemente. O come gli
scatti rapidissimi delle piante carnivore. Quanto al fatto che “non si
fanno sentire”, be’, molto dipende dalla nostra capacità di “ascoltare”.
Le piante, infatti, hanno un ricchissimo sistema di comunicazione,
costituito da una grande varietà di molecole (amminoacidi, zuccheri,
metaboliti secondari, sostanze volatili) con cui “dialogano” con le
proprie vicine o con gli animali. E sempre sul fronte comunicazione, è
degli ultimi anni la scoperta di un sistema interno di trasmissione
delle informazioni a livello delle radici che può essere considerato in
qualche modo analogo al sistema nervoso degli animali. Tra gli artefici
di questa scoperta c’è Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio
internazionale di neurobiologia vegetale dell’Università di Firenze e
uno dei fondatori della nuova disciplina della neurobiologia vegetale.
Professor Mancuso: ma allora anche le piante hanno un sistema nervoso?
Facciamo subito chiarezza: nelle piante non c’è un analogo “fisico”
del tessuto nervoso, quel tessuto costituito da neuroni e altre cellule
nervose e specializzato nella trasmissione di segnali elettrici. Eppure
possiamo parlare di neurobiologia vegetale perché c’è un’analogia
funzionale. In altre parole le piante non hanno neuroni, ma alcune
cellule vegetali – in particolare le cellule dell’apice radicale, cioè
la punta della radice – sono in grado di produrre segnali elettrici
sotto forma di potenziali d’azione (variazioni della differenza di
potenziale tra interno ed esterno della membrana plasmatica, NdR) e di
trasmetterli alle cellule vicine. Ricordiamo che già Charles Darwin
riteneva che gli apici radicali rappresentassero una sorta di “cervello
diffuso” delle piante, in grado di percepire segnali dall’ambiente e di
“prendere decisioni” sulle strategie da seguire. Oggi sappiamo che le
radici possiedono anche meccanismi per l’elaborazione e la trasmissione
di questi segnali.
Negli animali uno degli elementi chiave della trasmissione
nervosa è rappresentato dai neurotrasmettitori, le molecole che
trasportano l’informazione da un neurone all’altro a livello delle
sinapsi. C’è qualcosa di simile anche tra i vegetali?
Sì: molti neurotrasmettitori presenti nel nostro cervello
(glutammato, serotonina, dopamina, acetilcolina ecc.) sono presenti
anche nelle piante. In questo caso non li chiamiamo neurotrasmettitori,
perché non stanno in un cervello e perché non sempre la loro funzione è
nota, però ci sono. E per alcuni è stato mostrato un ruolo fondamentale
in meccanismi di trasmissione delle informazioni. Per esempio: una
radice ha la costante necessità di sapere con estrema precisione che
cosa accade nell’ambiente circostante. Questa “conoscenza” le deriva
dall’attività degli apici radicali, ciascuno dei quali è in grado di
“sentire”, cioè percepire e valutare, almeno 15 parametri chimici e
fisici differenti (temperatura, grado di salinità, grado di umidità e
così via), che devono essere integrati ed elaborati per individuare la
direzione di crescita ottimale. È stato scoperto che il glutammato è
fondamentale per questa elaborazione: se manca oppure è presente in
eccesso, la radice si comporta come se avesse perso il senso
dell’orientamento e cresce in modo anomalo.
In che modo lei e il suo gruppo di ricerca siete arrivati a
capire che gli apici radicali possiedono la capacità di integrazione,
elaborazione e trasmissione di informazioni?
Il punto di svolta è stato la scoperta che una particolare zona degli
apici radicali – la zona di transizione – consuma molto più ossigeno
delle zone vicine, una condizione che è indizio di forte richiesta
energetica e, dunque, della presenza di qualche intensa attività.
Eppure, all’inizio la zona di transizione non sembrava partecipare ad
attività a forte dispendio energetico, come può essere la
moltiplicazione cellulare. E allora: perché la zona di transizione
consuma tanto ossigeno se – in apparenza – non fa nulla di speciale? La
nostra ipotesi era che possedesse un’attività analoga a quella dei
neuroni e in effetti con il tempo abbiamo mostrato che le cellule di
questa zona sono in grado di generare e trasmettere potenziali d’azione.
Con quali approcci e strumenti affrontate in laboratorio questi argomenti? E con quali organismi modello lavorate?
Usiamo metodi e strumenti di differenti discipline. Dalla biologia
cellulare abbiamo “preso” i microscopi, sia ottici (compreso il
microscopio confocale a fluorescenza, che permette di visualizzare nel
campione differenti molecole opportunamente marcate), sia elettronici.
Dall’elettrofisiologia abbiamo mutuato l’uso di microelettrodi (dotati
di punte con dimensioni inferiori al millesimo di millimetro), gli
strumenti che servono a misurare i potenziali d’azione nei neuroni. Noi
li utilizziamo per studiare la produzione di segnali elettrici in
singole cellule vegetali, oppure i flussi ionici, cioè i movimenti degli
ioni verso l’interno e l’esterno delle cellule. Infine, dalla biologia
molecolare abbiamo imparato ad analizzare e manipolare DNA e RNA.
Lavoriamo molto con Arabidopsis thaliana, una piccola pianta
versatile e di cui si conoscono molti dettagli. Però lavoriamo anche con
altri modelli: tabacco, mais e pomodoro come piante erbacee e olivo e
vite come piante arboree.
Gli apici radicali possono dunque essere considerati, in
metafora, il “cervello” della pianta. Ma perché proprio gli apici? E
quali sono, allora, le “attività cognitive” vegetali?
Una delle ragioni più ovvie per spiegare perché le piante hanno
sviluppato un’attività simil neurale a livello degli apici sta nel fatto
che questi risiedono sottoterra: il suolo, infatti, è un ambiente più
stabile rispetto all’atmosfera per temperatura e umidità, e per di più
protetto dalla predazione animale e dalla radiazione ultravioletta
solare. Quanto alle attività “cognitive”, alcune le abbiamo già
accennate: per esempio, la capacità di raccogliere informazioni
ambientali, integrarle e reagire di conseguenza. Le piante, poi,
mostrano grandi capacità di comunicazione intra e interspecifica, ma
anche di apprendimento (e dunque di memoria) e di calcolo di
costi-benefici.
Mi sta dicendo che le piante ricordano?
Non nel senso comune che diamo alla parola ricordare, naturalmente:
le piante non ricordano volti o emozioni, ma possono ricordare
particolari condizioni ambientali che hanno incontrato in passato e la
risposta fisiologica adeguata per quelle condizioni. Per capire meglio
che cosa intendo dire partiamo dagli animali. Per “misurare” la capacità
di apprendimento di un animale, in genere gli si sottopone un problema
più volte e si valuta se la sua capacità di risolverlo migliora nel
tempo. Se questo accade, diciamo che l’animale ha imparato a riconoscere
il problema – quindi lo ricorda – e a reagire di conseguenza. Ecco: lo
stesso si può fare con le piante.
Quali problemi si possono sottoporre a una pianta?
Si tratta di problemi intesi come condizioni ambientali, per esempio
una condizione di difficoltà, di stress, come la presenza di
un’eccessiva salinità nel suolo. La prima volta che una pianta incontra
questa condizione mette in atto una serie di risposte metaboliche
necessarie a permetterle di sopravvivere; se la condizione torna alla
normalità (la salinità si abbassa), anche il metabolismo della pianta lo
fa. Ma supponiamo ora che torni a verificarsi una situazione di alta
salinità: se la pianta reagirà più in fretta, mettendo in atto più
velocemente le risposte metaboliche necessarie a sopravvivere, significa
che avrà ricordato il caso e avrà imparato come reagire al meglio.
Ebbene: è stato verificato che questo è esattamente quello che accade.
Diceva che le piante possono effettuare calcoli di rapporti costi-benefici. Può fare un esempio?
Supponiamo di osservare una pianta che cresce accanto a un’altra. Le
due competono per un bene essenziale per la vita vegetale: la luce
solare, fonte primaria di energia. Supponiamo che la “nostra” pianta sia
più bassa dell’altra e che quindi riceva meno luce. Questa è una tipica
situazione in cui la pianta deve prendere una decisione: restare com’è,
accontentandosi della poca luce che le arriva, oppure investire risorse
nella crescita, nel tentativo di superare l’altezza della sua
competitrice? Per il mio modo di vedere, scegliere questa seconda strada
significa tentare una previsione del futuro: “immaginare” che i
sacrifici richiesti per allungarsi saranno ricompensati dalla maggior
disponibilità di luce.
Ma come si fa a sapere che l’allungamento della pianta è
frutto di un calcolo e non di un meccanismo automatico, geneticamente
determinato?
Certo, il dubbio può venire. Però proviamo a pensare a che cosa
accade se, invece che un solo fattore – la luce solare – ne prendiamo in
considerazione contemporaneamente altri, proprio come deve fare la
pianta: salinità, umidità, concentrazione di azoto, presenza di
parassiti e così via. Di fronte a un quadro così complesso, la
“decisione” sulla direzione in cui crescere (puntare di più sullo
sviluppo fogliare? Sull’allungamento del fusto? Sullo sviluppo delle
radici? Sulle difese contro i patogeni?) non può essere una risposta
automatica, ma deve dipendere dall’integrazione ed elaborazione delle
informazioni, fino a stabilire quale necessità, di volta in volta, è più
stringente.
Ci può dire qualcosa anche sulla comunicazione tra piante?
Comunicazione è sicuramente una delle parole chiave della
neurobiologia vegetale. Abbiamo visto che le cellule di un’unica pianta
comunicano tra di loro, in modi analoghi a quelli che finora si
ritenevano esclusivi degli animali. Le piante, però, sono abilissime
anche nel comunicare con altri organismi della stessa specie o di altre.
Le radici, per esempio, secernono nel suolo una gran quantità di
sostanze che costituiscono veri e propri messaggi di segnalazione, e lo
stesso fanno le foglie e i fiori, con molecole volatili. In alcuni casi
si tratta di “armi chimiche”, dirette contro le piante circostanti con
l’obiettivo di ostacolarne crescita e sviluppo, o contro predatori, per
allontanarli. Altri segnali, invece, sono “amichevoli”, e servono per
attirare impollinatori o per avvertire altre piante della propria
comunità della presenza di pericoli: numerosi studi hanno mostrato che
le piante attaccate da insetti erbivori o da patogeni emettono sostanze
volatili in grado di segnalare il pericolo alle piante vicine, dando
loro il tempo di prepararsi per affrontarlo, con modifiche della propria
fisiologia che le rendano più resistenti.
Ma non converrebbe a una pianta sottoposta all’attacco da
parte di un patogeno concentrarsi sulla sua risposta, senza perdere
tempo e risorse per avvisare gli altri? Non le converrebbe essere
egoista piuttosto che altruista?
Consideriamo il problema in ambito evolutivo e immaginiamo di avere
una pianta infestata “egoista”, cioè concentrata solo a difendere sé
stessa. Poiché non ha avvertito le piante vicine, è molto probabile che
anche queste finiranno con l’essere attaccate dal patogeno che, di
conseguenza, rimarrà “in zona” e potrà tornare a infestare più volte la
pianta egoista. Non solo: in seguito all’infestazione, le vicine possono
morire, e allora la nostra pianta egoista, anche se rimasta in vita,
non avrà nessuno nei dintorni con cui riprodursi. Insomma, proprio come
nel mondo animale, anche in quello vegetale ci sono situazioni in cui
conviene, evolutivamente parlando, essere altruisti.
Le piante non comunicano solo all’interno del loro mondo, ma anche con gli animali…
È proprio così, basti pensare ai segnali visivi (i colori) e
olfattivi che emettono i fiori per attirare gli insetti e indurli in
questo modo a effettuare il servizio di impollinazione. E ancora: molte
piante attaccate da predatori o da patogeni producono sostanze repulsive
nei confronti del nemico, oppure in grado di attirare predatori del
nemico stesso (secondo la nota logica “il nemico del mio nemico è mio
amico”). Tra le più comuni, lo fanno per esempio il tabacco, il
pomodoro, le melanzane. Questa proprietà e quella di avvertimento alle
piante vicine possono essere sfruttate in ambito agrario: se inondiamo
una coltura con un “messaggio di avvertimento”, la prepariamo
all’attacco, rispetto al quale sarà più resistente.
Senta professore, dopo tutte queste informazioni una domanda viene spontanea: le piante sentono dolore?
Esiste una specie di convenzione scientifica secondo la quale questa è
una domanda che non ci si deve proprio porre. Io però ritengo davvero
improbabile che organismi così complessi siano privi di un sistema in
grado di distinguere il “bene” dal “male” (inteso come qualcosa di
pericoloso per la sopravvivenza), che è proprio la funzione fondamentale
del dolore. Seguendo questo ragionamento, mi sembra dunque probabile
che le piante possano soffrire anche se, allo stato attuale delle
conoscenze, non possiamo dire “come”, né sappiamo in che modo affrontare
il problema: è possibile che abbiano meccanismi di percezione di ciò
che è bene o male per la loro vita molto differenti dai nostri.
Piante in orbita
La
forza di gravità è il parametro fisico che più di tutti ha plasmato la
crescita delle piante nel corso della loro storia evolutiva: le radici
crescono verso il basso e fusti e foglie verso l’alto proprio come
precisa risposta fisiologica a questa forza. Ma qual è esattamente la
catena di messaggi cellulari e molecolari che indica a una pianta dove
si trovano rispettivamente l’alto e il basso? Per rispondere a questa
domanda, da qualche anno il gruppo di ricerca di Stefano Mancuso
partecipa ad alcune attività dell’Agenzia spaziale europea (Esa) che
consentono di ottenere condizioni di alterazione della gravità
(microgravità e ipergravità), come i voli parabolici. Le informazioni
raccolte con queste indagini potrebbero avere significative applicazioni
pratiche: «Se vogliamo andare su Marte (un viaggio spaziale che
richiederebbe anni, NdR) non possiamo pensare di farlo senza le piante,
per almeno tre motivi», chiarisce il ricercatore. «Primo: perché
producono di continuo ossigeno. Secondo: perché sono alla base della
catena alimentare, quindi potrebbero offrire cibo “fresco”. Terzo:
perché potrebbero contribuire a mantenere serenità nel gruppo di
astronauti, costretti alla convivenza forzata per tempi lunghissimi».
Quello delle interazioni tra gli astronauti è il vero punto critico di
campagne di questo tipo e alcuni studi in cui sono state simulate a
Terra le condizioni di un viaggio su Marte hanno mostrato che la
presenza di piantine e la necessità di prendersene cura riducono
notevolmente i conflitti. «In assenza totale e prolungata di gravità,
una pianta tende a crescere in modo caotico, buttando germogli e radici
in tutte le direzioni. Capire che cosa regola la risposta alla gravità
potrebbe permettere di intervenire su questi meccanismi, facilitando una
crescita “ordinata” della pianta anche nello spazio», conclude Mancuso.
Mozart tra i filari
Montalcino, in Toscana, patria del
famoso Brunello, uno dei vini più pregiati d’Italia. Qui, passeggiando
tra i vigneti di alcuni produttori, può capitare di trovarsi immersi non
solo tra i grappoli, ma anche nella musica: Mozart, Vivaldi, musica
barocca. Non è una stravaganza, ma un esperimento scientifico e tra i
gruppi di ricerca che ci lavorano c’è anche quello di Stefano Mancuso.
«L’idea è semplice: i suoni non sono altro che vibrazioni e sappiamo che
le piante sono perfettamente in grado di percepire vibrazioni,
attraverso particolari strutture cellulari dette canali
meccanosensibili», spiega Mancuso. Non è ancora del tutto chiaro a che
cosa serva questa percezione, ma un’ipotesi è che si tratti di un modo
per “sentire” il passaggio dell’acqua nel terreno. Il senso degli
esperimenti condotti a Montalcino è dunque capire che cosa succede a una
pianta sottoposta a vibrazioni sonore di particolari frequenze: a
proposito, la scelta del repertorio musicale non ha valore scientifico,
ma di “gusto”. I primi risultati stanno arrivando: «Sembra che le viti
esposte alla musica maturino una decina di giorni prima delle altre: un
comportamento interessante per i produttori, che temono il maltempo in
caso di vendemmie tardive». Altre ricerche suggeriscono che le
vibrazioni sonore potrebbero proteggere le piante da insetti patogeni,
interferendo con il loro comportamento riproduttivo.
http://magazine.linxedizioni.it/tag/neurobiologia-vegetale/
Non diventare mai vittima delle aspettative degli altri e non rendere nessuno vittima delle tue...Osho
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