Mentre continua imperterrita e sempre uguale se stessa la
telenovela strappalacrime dell’eurozona, animata soprattutto dalla fuga “tecnicamente possibile” della Grecia e
dalle successive smentite ipocrite e false condite da romanzesche necessità di
rimanere tutti insieme appassionatamente perché “uniti siamo più forti”, qualcosa si muove nell’economia reale che
dovrebbe farci riflettere sui motivi per cui oggi come oggi l’uscita dall’euro dell'Italia e il
ritorno alla nostra moneta nazionale, la lira, sarebbe per il nostro paese la scelta economicamente più conveniente.
Anticipiamo subito che quella che segue è una trattazione tecnica, fredda,
asettica dove vengono sfrondati tutti quegli elementi irrazionali e inconsci basati sulle paure per il futuro,
l’incertezza e la precarietà che tanta importanza poi hanno sulla gestione
pratica dell’economia. Per intenderci, eliminate le visioni catastrofiste che
non hanno alcun fondamento scientifico, che dipingono l’Italia della lira travolta da uragani di svalutazione e tempeste
di inflazione, e le discussioni da bar del tipo “io con l’euro in tasca mi sento più sicuro” o “con la nostra liretta non possiamo combattere contro i cinesi”,
cerchiamo di capire insieme i motivi per cui un politico italiano onesto intellettualmente (ma anche penalmente) e
che abbia a cuore la sorte del suo paese dovrebbe recarsi oggi stesso (ma
poteva farlo anche ieri) a Bruxelles a dire: “OK, è stato bello. Ci avete provato a distruggere il popolo e
l’economia italiana e ci abbiamo provato a darvi una mano a distruggerli, ma
questi italiani sono cocciuti e resistono. Quindi noi ci ritiriamo dalla guerra
dei trent’anni (e più, visto che è iniziata nel lontano 1979, con
l’ingresso dell’Italia nello SME) e
ritorniamo a fare politica economica attiva (e non passiva: il classico
pigiamento dei bottoni in parlamento perché “ce lo chiede Europa!”) nel
nostro Bel Paese. Buona fortuna a tutti e amici come prima”.
Questa considerazione iniziale prende spunto principalmente
dall’andamento di una variabile economica che è fondamentale per il benessere e
la sostenibilità a medio e lungo termine di un sistema paese: la bilancia commerciale. Che cos’è la
bilancia commerciale? La bilancia commerciale è un elemento della contabilità
nazionale che misura e registra il flusso
di importazioni ed esportazioni di beni e servizi di un certo paese da e
verso l’estero. Quando il saldo della bilancia commerciale è positivo significa
che il paese sta esportando beni e servizi più di quanto ne importa e che nel
paese stanno entrando più capitali di quanti ne escono (con i quali poi si
possono pagare successive importazioni, rimborsare i debiti contratti in
passato con l’estero, acquistare titoli o fornire prestiti ai residenti
stranieri). La bilancia commerciale però è solo una parte del flusso
finanziario totale che attraversa in entrata e in uscita il paese, perché
bisogna mettere in conto anche le rendite
da capitale (gli interessi sugli investimenti finanziari incrociati fra il
paese in questione e il resto del mondo) e i redditi da lavoro (i profitti delle partecipazioni in società per
azioni nazionali o delle aziende straniere portati all’estero e le rimesse che
gli emigranti inviano nei loro paesi d’origine).
La bilancia commerciale più la rendicontazione in entrata e in
uscita degli interessi da capitale e i redditi da lavoro formano il saldo delle partite correnti (current account per gli esterofili) che
è una delle due parti principali della bilancia dei pagamenti con l’estero di un paese, da cui dipende quasi interamente il
tasso di cambio della moneta
nazionale quando inserita in un sistema di cambi flessibili. L’altra parte si
chiama conto finanziario (financial account), che registra le
modalità o i corrispettivi con cui vengono finanziati i flussi di merci, servizi
e capitali scambiati con l’estero: moneta contante, investimenti diretti e di
portafoglio, acquisto di titoli, prestiti o debiti bancari, attività in valuta estera
della banca centrale.
Per completezza diciamo pure che in mezzo a questi due
prospetti, c’è un’altra partita, il conto
capitale (capital account), in
genere trascurabile dal punto vista contabile ma non da quello strategico e
geopolitico, che registra i trasferimenti
unilaterali in conto capitale non compresi nei due schemi precedenti e
privi di un immediato collegamento con l’attività produttiva del paese:
donazioni, successioni, compravendite di terreni e risorse del sottosuolo,
risarcimenti e finanziamenti a fondo perduto, brevetti, concessioni di licenze.
Per chi ha una certa dimestichezza con la contabilità aziendale, possiamo dire
che considerando un intero sistema paese (somma del settore pubblico e del
settore privato) alla stregua di un’azienda, il saldo delle partite correnti
corrisponde al conto economico da
cui si forma l’utile o la perdita di esercizio (vendite, costi delle materie
prime e dei semilavorati, scorte di magazzino, stipendi, ammortamenti,
plusvalenze e minusvalenze finanziarie, imposte), mentre il conto finanziario e
il conto capitale rappresentano insieme la parte di bilancio chiamata stato patrimoniale in cui vengono
conteggiati tutti gli impieghi e le fonti con cui abbiamo finanziato la nostra
attività (depositi monetari, prestiti, debiti, investimenti mobiliari e
immobiliari, licenze, brevetti, avviamento, capitale proprio versato dagli
azionisti, riserve). Alla fine, siccome anche nella stesura della bilancia dei
pagamenti viene utilizzato il metodo
della partita doppia, il saldo aggregato del conto corrente, capitale e
finanziario deve essere uguale a zero e l’unica variabile esterna che riesce a
riequilibrare le due principali partite, equivalente all’utile o alla perdita
di esercizio, è l’accumulo o l’utilizzo
di riserve di valuta estera con cui la banca centrale riesce a compensare
eventuali sbilanciamenti con il resto del mondo.
In pratica se in un certo periodo di tempo, dopo che sono
avvenuti tutti i trasferimenti commerciali e finanziari fra il paese e il resto
del mondo, i capitali che affluiscono nel paese sono superiori a quelli che
defluiscono, la banca centrale accumulerà per forza di cose una certa quantità
di riserve di valuta estera (con un conseguente aumento della domanda e un apprezzamento della moneta nazionale). Viceversa,
se escono più capitali di quanti ne entrano, la banca centrale sarà costretta a
bruciare parte delle sue riserve di valuta straniera con tutte le conseguenze
che ciò comporta in termini di una maggiore offerta e deprezzamento della valuta nazionale. Con un’unica differenza
sostanziale: se questo afflusso di
capitali dall’estero serve per comprare beni o servizi nazionali noi avremo
un accreditamento con l’estero (dato
che possiamo successivamente utilizzare questi capitali per comprare prodotti
di importazione, titoli esteri, azioni o intere aziende straniere), se invece i
capitali stranieri vengono utilizzati dai non residenti per effettuare
prestiti, acquistare titoli, azioni o intere aziende nazionali, avremo
ovviamente un indebitamento con l’estero
perché in un prossimo futuro dovremo corrispondere agli investitori stranieri
il rimborso del capitale, gli interessi sui titoli, i dividendi sugli
investimenti diretti o di portafoglio nelle nostre aziende nazionali. Ecco per
quale motivo bisogna sempre distinguere in che modo affluiscono i capitali in
un determinato paese, perché se il primo metodo basato principalmente
sull’attività produttiva pone il paese in una posizione di vantaggio rispetto
all’estero, il secondo invece alla lunga potrebbe rendere insostenibile il tasso di indebitamento e il debito estero accumulato dal nostro
paese, che come sappiamo è la prima causa di fallimento di un intero sistema economico nazionale (formato,
ripetiamo, dal settore pubblico e
dal settore privato, e non dal solo
settore pubblico come vogliono farci credere i tecnocrati europeisti e i
menestrelli assoldati dal regime che puntano continuamente il dito contro il
male assoluto del debito pubblico, dimenticando del tutto le maggiori
afflizioni provocate da un eccesso di debito privato).
Periodicamente il saldo
delle partite correnti ci informa in che modo stanno affluendo o defluendo
i capitali dall’estero: se è positivo, significa che le
esportazioni sono maggiori delle importazioni e questi nuovi capitali in
ingresso stanno creando ricchezza
finanziaria netta nel paese e un maggiore
accreditamento nei confronti del resto del mondo, se invece è negativo,
le esportazioni sono inferiori alle importazioni e i capitali stanno fuggendo
dal paese creando le premesse di un maggiore
impoverimento netto (nel caso la banca centrale sia costretta a bruciare
parte delle riserve di valuta estera) o indebitamento
del paese (nel caso questi capitali in fuga vengano poi utilizzati dagli
investitori stranieri per effettuare prestiti ai residenti, acquistare titoli, comprare
azioni o acquisire il controllo di maggioranza di intere aziende nazionali). Quindi
le informazioni fornite dal saldo delle partite correnti sono fondamentali per
conoscere lo stato di salute di un paese e non appena vi imbattete in uno di
quegli strani personaggi che circolano a piede libero in Italia rivolto verso
la Mecca in attesa dell’arrivo
messianico dei capitali dall’estero, sappiate che avete di fronte o un ignorante (nel senso che ignora il
funzionamento della bilancia dei pagamenti) o un farabutto (che conosce benissimo come funziona la bilancia dei
pagamenti e consapevolmente vuole svendere o mettere in condizioni di disagio
internazionale il nostro paese per un proprio tornaconto personale).
Per carità, una certa dose di investimenti esteri è fisiologica e positiva per il paese perché
consente di mettere in moto attività e distribuire redditi altrimenti
impossibili da finanziare con i soli capitali interni (soprattutto quando si
tratta di nazioni arretrate, ricche di risorse umane e naturali non sfruttate,
dotate di una moneta poco apprezzata all’estero: non è il caso dell’Italia
dunque, che ha un tessuto produttivo abbastanza sviluppato e avviato, una
discreta solidità finanziaria e patrimoniale, know-how, professionalità, competenze sufficienti per potere
farcela da sola, almeno per il momento), ma far dipendere tutta l’economia di
un paese dagli investimenti stranieri e dai cosiddetti “mercati” (vedi la tiritera meccanica e demagogica del fantoccio
mercenario Monti e della sua cricca di briganti capeggiata da Bersani,
Berlusconi, Casini, e dai sindacalisti da salotto televisivo e ansiosi di
entrare in parlamento alla Camusso, Bonanni, Angeletti, Landini) significa
mettere un cappio al collo al paese
e stringerlo di più ogni anno che passa, fino al definitivo soffocamento per eccesso di debito estero (soprattutto
nelle condizioni miserevoli in cui si trova adesso l’Italia, costretta ad
operare con un moneta straniera come
l’euro, alla stregua dell’Ecuador o dei paesi del Terzo Mondo).
Come accade
con tutte le grandezze e le variabili più importanti studiate in macroeconomia (PIL, inflazione,
disoccupazione, debito pubblico e privato, contabilità nazionale) ogni eccesso
o difetto in uno o nell’altro verso porta sempre a uno squilibrio e ogni
squilibrio deve essere poi riparato con operazioni straordinarie e non
convenzionali, prima che si trasformi da temporaneo a permanente. E la bilancia
dei pagamenti, l’indebitamento estero, il debito o credito estero cumulato che
è la somma algebrica dei vari deficit o surplus di partite correnti che si
succedono anno per anno (anche chiamato “Posizione degli Investimenti Internazionali
Netti”, in inglese NIIP, “Net International Investment Position”) non
fanno sicuramente eccezione a questa regola di buon governo dell’economia (ma
anche norma di condotta della vita in generale, visto che comunemente si dice
che “il troppo stroppia”).
Ma dopo avere fatto questa doverosa premessa sull’importanza cruciale in economia della bilancia dei pagamenti, veniamo al
punto della nostra discussione: mentre in Italia imperversano la crisi, il calo
dei consumi, il crollo della fiducia, la disoccupazione, è accaduto un miracolo che dimostra una volta di più come il nostro
paese non sia ancora a livello di Terzo Mondo, malgrado tutti i tentativi
esogeni ed endogeni di farlo diventare tale che si sono succeduti da trenta
anni a questa parte. E con una gestione
più sostenibile e razionale dei processi economici e finanziari, basata
innanzitutto sul rifiuto dell’euro e sul recupero della sovranità monetaria nazionale, l’Italia non solo potrebbe affrontare
questa crisi in modo molto più efficace e indolore, ma risolverla in molto meno
tempo rispetto a quello previsto dai catastrofisti a comando e a libro paga
delle banche (che ripetono anatemi apocalittici, del tipo “con il ritorno alla lira l’Italia verrebbe tagliata fuori dai commerci
internazionali per circa 10, 20, 50 anni, per tutta l’eternità!”, senza mai
portare una sola prova o uno straccio di ragionamento scientifico sul quale
basare queste previsioni insensate).
Nel mese di giugno 2012, ISTAT ha infatti certificato un saldo positivo della bilancia commerciale italiana con l’estero,
confermando un surplus di +2,517 miliardi di euro (di cui €997 milioni
provenienti dai paesi intra-eurozona e €1,520 miliardi dal resto del mondo) rispetto
al deficit di -1,704 miliardi registrato nello stesso mese del 2011. Un balzo
spaventoso, impressionante, un vero miracolo (soprattutto se parametrato con le
condizioni proibitive in cui si trovano a lavorare oggi le aziende italiane:
crisi, tasse, burocrazia, costo del lavoro) che però il governo Monti si è guardato
bene dal diffondere come successo propagandistico perché sa bene che non
c’entra nulla con le sue riforme depressive ed è in un certo senso contrario a
quello che è il suo vero obiettivo: rendere l’Italia un paese di consumatori e
salariati e non di produttori, maggiormente dipendente dalle importazioni dall’estero, in modo da vincolare
l’intero paese a rimanere ingabbiato più a lungo possibile nel sistema fascista
di tortura finanziaria e espropriazione massiccia di ricchezza della moneta
unica.
Analizzando il modo in cui si è formato questo surplus
della bilancia commerciale, possiamo sicuramente confermare che una parte del
successo può essere imputato alla crisi
economica e al calo dei consumi,
visto che le importazioni sono diminuite di un bel -7,1% in un anno, ma l’altra
parte, le esportazioni che sono cresciute del +5,5%, sono senz’altro frutto
della capacità delle imprese italiane, soprattutto nel settore manifatturiero e
dei beni strumentali, di penetrare sia nei mercati bloccati e congelati
dell’eurozona, che in quelli più dinamici dei paesi extra-eurozona ed
emergenti. Ma cosa è accaduto di così eclatante e straordinario da spingere le aziende più tartassate e vessate del mondo
a rialzare la testa? Ragioniamo. A livello mondiale, il quadro economico
generale è rimasto pressoché invariato rispetto all’anno scorso: i paesi
emergenti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a parte qualche
lieve flessione crescono più o meno agli stessi ritmi, Stati Uniti e Giappone
sono invece praticamente fermi sulla soglia di una nuova recessione. In Europa
Italia, Grecia, Spagna sono in recessione tecnica, la Francia è in stagnazione
e la Germania cresce ad un regime molto più basso dell’anno scorso. Quindi? Chi o cosa ha potuto trainare
la ripresa delle esportazioni italiane? La risposta è molto semplice ed è ciò
che i tecnocrati europeisti non avrebbero mai voluto sentire ronzare intorno
alle loro orecchie, perché contraria a tutto ciò che loro avevano pianificato e
previsto con l’introduzione di una moneta unica in Europa: la svalutazione dell’euro.
Se guardiamo infatti non al mese singolo di giugno, ma
all’andamento del saldo della bilancia commerciale che si è registrato durante
tutto l’anno, a partire dal mese di giugno 2011, scopriremo che il dato
straordinario di giugno 2012 non è il frutto di un successo estemporaneo e
passeggero ma l’effetto di una precisa tendenza
che si è manifestata costantemente mese dopo mese. Se ci rifacciamo al primo grafico (vedi sotto) con i dati rielaborati
questa volta da EUROSTAT, ci accorgiamo che il deficit della bilancia
commerciale italiana con i paesi intra-eurozona si è ridotto mese dopo mese
con una certa pendenza, la qual cosa non è evidentemente ascrivibile alla
svalutazione dell’euro, dato che questi paesi utilizzano la stessa moneta. Una
tendenza positiva che è molto più accentuata nei paesi della periferia e quindi
è più marcatamente collegata ad un calo delle importazioni dovuto alla crisi
piuttosto che ad un aumento delle esportazioni che comunque c’è stato.
Ma se esaminiamo adesso il secondo grafico (vedi sotto) con l’andamento dei saldi netti della
bilancia commerciale con i paesi extra-eurozona, vediamo che ad eccezione
dell’Olanda, il miglioramento nella bilancia commerciale con l'estero è condiviso da tutti i maggiori paesi dell’area
euro, sia del centro (Francia, Germania) che della periferia (Italia, Spagna,
Grecia, Portogallo, Irlanda), con una pendenza molto più ripida in questi
ultimi rispetto ai primi, a conferma del fatto che le dinamiche del tasso di cambio flessibile sono più decisive e
determinanti nei paesi meno organizzati in senso mercantilista sul modello della
Germania, che con la sua politica di
deflazione dei prezzi e dei salari e
il contenimento della domanda interna ha sicuramente meno bisogno
della svalutazione per accumulare surplus commerciali positivi e mantenere
un’adeguata stabilità sociale entro i confini.
Nella tabella
riassuntiva riportata sotto si vede chiaramente che in tutti i paesi PIIGS
della periferia, ad eccezione del Portogallo, ma in misura minore anche in
Germania e Francia, le variazioni marginali nella bilancia commerciale registrate
durante l’anno sono maggiori negli scambi extra-eurozona che intra-eurozona, a
riprova ancora del fatto che i benefici
della svalutazione sia in uscita che in entrata (maggiori esportazioni e
minori importazioni) con il resto del mondo hanno favorito un più rapido recupero di competitività. Nel
caso dell’Italia, il nostro paese è riuscito a recuperare in un anno ben 1,4
punti percentuali di PIL negli scambi commerciali extra-eurozona, contro lo
0,4% recuperato all’interno dell’eurozona.
Questi dati confermano ancora una volta, qualora fosse
necessario, che mentre i paesi PIIGS
hanno urgente bisogno di una moneta debole e più
svalutata per far ripartire la ripresa degli scambi commerciali con
l’estero, la Germania, sebbene sia stata favorita anche lei dalla svalutazione dell'euro, in ottica
puramente mercantilista continua invece a preferire una moneta forte e ancora più rivalutata per mantenere alto il valore
dei capitali accumulati in passato e assicurare un tenore di vita dignitoso ai
lavoratori che hanno già dovuto affrontare parecchi sacrifici e rinunce in
termini salariali. Ecco spiegato il principale motivo per cui Berlino, e in
particolare la banca centrale tedesca Bundesbank, mettono continuamente pressione
alla BCE affinché si astenga dalla tentazione di attuare nuove politiche monetarie espansive, del tipo
LTRO (Long Term Refinancing Operation) di rifinanziamento a lungo termine
delle banche o SMP (Securities
Markets Programme) di acquisto di titoli di stato sul mercato secondario. E insieme
a molte altre, questa è una delle ragioni per cui una moneta unica introdotta in contesti economici, politici, sociali
del tutto differenti non può funzionare, dovendo conciliare esigenze spesso
completamente opposte da parte dei paesi aderenti all’unione monetaria.
Continuando però sulla linea dell’intransigenza, i
tedeschi non solo dimostrano di avere imparato poco dal passato e di ignorare i
sensazionali vantaggi prodotti dalla cooperazione (“teoria dei giochi”), ma anche di non avere ancora capito
praticamente nulla sul funzionamento del sistema monetario moderno: il valore di cambio o il potere di acquisto di una
valuta non dipende soltanto dalla “quantità
di moneta” emessa dalla banca centrale (la teoria quantitativa della moneta
di Fisher e Friedman, elevata a legge di natura soltanto in Europa, è ormai
considerata una baggianata da tutti i maggiori esperti mondiali di politica
monetaria), ma da “come” le banche
private depositarie o gli stati nazionali mettono in circolo questi nuovi soldi,
dagli scambi commerciali e finanziari con l’estero e dal grado di fiducia che
gli investitori internazionali hanno sulle possibilità di ripresa e crescita
economica di una certa area valutaria. Credere fra l'altro che esista un'elevata correlazione diretta fra svalutazione della moneta e perdita del potere di acquisto
(o aumento dell'inflazione) porta immancabilmente ad una serie di
errori e incomprensioni della realtà economica, da cui è difficile
districarsi.
Se osserviamo il grafico riportato sotto
sull’andamento del valore di cambio
euro/dollari durante l’ultimo anno, notiamo che la caduta libera
dell’euro
dal valore di picco di 1,45 dollari di agosto scorso a 1,24 dollari
attuali
(svalutazione del 14,5%), è iniziato ben prima della discesa in campo
della BCE
con le sue operazioni monetarie non convenzionali (datate settembre,
dicembre e
febbraio e anzi, come si può vedere dal grafico, in prossimità delle
nuove massicce immissioni monetarie, l'euro rivalutava perchè aumentava
la fiducia degli investitori internazionali) ed è dovuta principalmente
all’incapacità e incompetenza dei
tecnocrati europei di affrontare tempestivamente la crisi e trovare una
soluzione condivisa, che a sua volta ha spinto i maggiori operatori
finanziari
internazionali a smobilitare in fretta tutte le attività denominate in euro,
comprese le riserve in valuta, in
vista della recessione puntualmente arrivata e del tracollo definitivo
dell’unione monetaria. E in mezzo a queste tremende oscillazioni del
tasso di cambio ed enormi iniezioni di massa monetaria nel sistema, l'inflazione media in Europa
è rimasta ancorata al suo granitico valore del 2%, con basse variazioni
sia verso l'alto che verso il basso, a dimostrazione del fatto che la
visione neoliberista tedesca dell'economia, da cui dipendono le scelte
della BCE e le sorti degli altri paesi europei, è completamente
fuorviante.
Non
tutto il male (se la temuta svalutazione può essere considerata un
male, visto che è un semplice dato tecnico che misura gli squilibri
commerciali e finanziari in corso) viene però per nuocere perché
sconfessando i detrattori dei cambi flessibili e gli esegeti della
moneta
forte, questa volta la svalutazione
dell’euro ha chiaramente dimostrato che in certe particolari condizioni di stallo
dell’economia può agire da volano di sviluppo e da motore di avviamento di
tutte le attività produttive. Se consideriamo infatti la bilancia commerciale complessiva dell’area euro nei confronti del
resto del mondo abbiamo nel solo mese di giugno un surplus di +3,7 miliardi di
euro che annualizzato a tutto il 2012 diventa un avanzo di ben +66,9 miliardi:
un notevole balzo in avanti se confrontato con il deficit commerciale di -7,4
miliardi registrato nel 2011, che può essere soltanto ricondotto agli effetti positivi della svalutazione. Un
successo che spiazza soprattutto gli Stati
Uniti, che spingono per una fine rapida della recessione europea e un
ritorno della fiducia nel vecchio continente non tanto per un improvviso
afflato di solidarietà (gli americani, ma ci credete voi?), ma perché il
ritorno ad un euro più forte potrebbe arrecare considerevoli vantaggi alla
fragile ripresa americana, che verrebbe trainata dalle esportazioni in Europa e da un
dollaro nuovamente più svalutato.
E’ sempre utile ricordare che la svalutazione di una moneta nei confronti di una o più monete
concorrenti corrisponde anche ad una rivalutazione
di queste ultime rispetto alla prima: quindi il paese che aumenta le sue esportazioni appoggiandole su una moneta più
svalutata, assisterà anche per diretta conseguenza ad una riduzione delle importazioni dai paesi che stanno intanto
rivalutando e ad un maggior ricorso alle
produzioni locali. Ovviamente il paese in questione dovrebbe essere in
grado di sostituire rapidamente i beni di
importazione con beni locali equivalenti, altrimenti la sua dipendenza
dall’estero avverrà a costi sempre maggiori e insostenibili. Un caso
quest’ultimo che può essere applicato ad un paese come la Grecia, ma non all’Italia,
che a parte gli elevati costi per
l’energia (petrolio e gas soprattutto) che pesano per circa il 17% sul
valore complessivo delle merci importate, può contare su un’industria
manifatturiera capace ancora (e nonostante tutti i legacci monetari e
amministrativi con cui vengono quotidianamente strangolate) di competere alla
pari in termini qualitativi e produttivi con le maggiori potenze industriali
mondiali. Facciamo subito un esempio per capirci.
Se l’Italia dovesse uscire domani stesso dall’euro e ritornare alla lira, sappiamo ormai con
un certo grado di approssimazione che la nuova moneta nazionale dovrebbe subire
una svalutazione di circa il 20%
rispetto alla moneta principale di riferimento (il marco tedesco) della precedente
area valutaria di appartenenza. Ovviamente ciò significa che la lira si
svaluterebbe nei confronti del marco ma potrebbe ragionevolmente rivalutarsi
rispetto alle monete di altri paesi con cui manteniamo un saldo positivo negli scambi
commerciali e finanziari. Tuttavia assumendo per eccesso una svalutazione media
complessiva del 20%, avremo che i prezzi dei prodotti di importazione
verrebbero automaticamente maggiorati della stessa quantità, perdendo
convenienza rispetto a quelli locali. Ora di tutte le necessità impellenti di
una comunità nei periodi immediatamente successivi ad un cambiamento così
radicale di struttura economica, l’acqua
corrente penso che sia uno di quei bisogni dai quali nessuno possa
prescindere: se andiamo a scorrere l’elenco dei maggiori produttori di pompe idrauliche operanti nel mercato europeo scopriremo con nostra sorpresa che si
tratta principalmente di aziende tedesche, francesi e “italiane”. Quindi per quanto riguarda l’acqua corrente siamo
coperti e con la nostra bella liretta svalutata tanto invisa ai tromboni del regime potremmo comprarci
le nostre belle pompe idrauliche “italiane”,
in caso di guasto o svecchiamento per usura.
Se ripetiamo l'esperimento con altri beni di
consumo, strumentali o intermedi essenziali ritroveremo insospettabilmente che
le aziende italiane sono ancora tutte lì, presenti, eroiche a battagliare con
cinesi, tedeschi, americani, francesi, giapponesi, coreani, nonostante questi lunghi trenta anni di cattiva politica
e indegna guerra al massacro dell’economia nazionale. Se infine riprendiamo la
solita solfa sull’arretratezza tecnologica italiana, la mancanza di industrie
produttrici di computer, i-phone, i-pad, pensate davvero che con una corretta politica di incentivi e protezioni
(come fanno tutti nel mondo) non potrebbe nascere in Italia una nuova filiera
della tecnologia? Ma se le migliori schede elettroniche del mondo le
costruiscono gli ingegneri italiani alla STMicroelectronics di Catania? Credete
davvero che non sia possibile convincere un centinaio di questi ingegneri
insieme ad altri cervelli in fuga in giro per il mondo a ritornare in patria
per partecipare ad una nuova avventura tutta “italiana”?
Quello che in verità manca all’Italia non è la forza
lavoro, le competenze, le professionalità (ripetiamo, sempre per adesso, ma più
avanti si va in questa lenta agonia e maggiori sono le possibilità che la meschina classe dirigente attuale
riesca a piegare le ultime resistenze ancora vive del paese), ma una vera
classe dirigente, fatta di politici e imprenditori capaci di valorizzare queste risorse e di seguire un progetto
dall’inizio alla fine, senza ripiegare su facili scorciatoie, intrallazzi,
salvacondotti personali. E’ chiaro che con la svalutazione della nuova lira,
gli investitori esteri avrebbero maggiori vantaggi a comprare a buon mercato le
aziende italiane più attraenti, ma in questo caso dovrebbe essere la politica
con giuste norme e sanzioni amministrative ad impedire le acquisizioni sregolate. Dovrebbe essere ancora la politica a
favorire con sussidi e barriere all’ingresso delle merci
concorrenti la nascita di aziende nei settori dove siamo carenti, perché il protezionismo non è affatto in
contraddizione con il liberismo,
dato che i due approcci possono benissimo convivere all’interno della stessa
nazione: si può essere protezionisti con le aziende o i settori in fase di start-up e liberisti con le imprese già
avviate e capaci di confrontarsi alla pari con i mercati internazionali. E’
sempre l’eccesso di protezionismo o di liberismo a creare squilibri
irreparabili, non la giusta misura fra due strategie solo apparentemente
opposte.
I liberisti o
sedicenti tali che inquinano il dibattito pubblico italiano (vedi gli
smidollati neoliberisti alla Oscar
Giannino che vedono nello Stato il nemico degli affari, trascurando il
fatto che esistono vari tipi di Stato e in quello ideale che andiamo tratteggiando
qui, le istituzioni pubbliche sono il sostegno, il supporto, la soluzione alle
richieste dell’economia e non il problema) dovrebbero rifarsi alle origini e
alle tradizioni del liberismo europeo, andandosi a rileggere attentamente Adam Smith, per scoprire che la “Ricchezza
delle Nazioni” di cui parlava l’autore non erano i soldi o l’oro, ma il lavoro, l’organizzazione, le competenze.
Ci vogliono anni per formare un operaio qualificato, un ingegnere o mettere su
un’azienda, mentre come tutti sanno ma fanno finta di non sapere bastano pochi secondi per creare o
distruggere dal nulla enormi quantità di denaro digitale, che senza un
corrispondente sottostante nell’economia reale sono solo impulsi elettronici
privi di valore, ma capaci in un attimo di fare la fortuna di speculatori,
banchieri, imprenditori neoliberisti smidollati che hanno preferito vivere di rendita con la finanza
piuttosto che rischiare di gettarsi in un progetto che li obbligherebbe a
lavorare per davvero. La vera risorsa
scarsa non sono quindi i soldi, come vanno blaterando questi neoliberisti
smidollati sulla scia della follia teutonica, ma gli uomini, le conoscenze,
le idee, le innovazioni, la ricerca,
la capacità di investire in un
progetto e di utilizzare in modo sano e sostenibile le risorse naturali. Ed è di questa specifica “ricchezza” che
continuando a percorre il vicolo cieco della perenne anemia finanziaria fomentata
dal falso mito della moneta forte
rischia di essere presto o tardi priva l’Italia.
L’euro è stato l’alibi con cui è diventato più
conveniente per questa sottospecie di
decerebrati, gli imprenditori
mercenari collusi con la politica corrotta che ha trascinato l’Italia nella
gabbia depressiva e deflattiva dell’eurozona (i vari De Benedetti, Colaninno,
Chicco Testa, Marchionne, Tronchetti Provera), ad abbandonare quasi del tutto
la strada dell’innovazione e dello sviluppo e a mettersi al traino
dell’allucinogeno miraggio europeista, basato sulle grandi corporazioni, la finanziarizzazione
spinta delle attività, l’apertura convinta senza protezioni ai mercati internazionali, la riduzione dei salari e delle tutele sindacali,
la bassa inflazione come unica arma
di difesa nel tempo del valore dei grandi capitali accumulati dai cartelli
monopolisti europei. Ma cosa si voleva sperare mettendosi in libera concorrenza
con un lavoratore schiavizzato cinese? Che il salario dell’operaio italiano o
tedesco sarebbe cresciuto? Che saremmo riusciti a piegare i mercati cinesi? Servono
ancora grafici per spiegare che gli straordinari surplus commerciali tedeschi si sono creati grazie ad una guerra
fratricida interna all’eurozona e non un centesimo è stato fatto a spese della
Cina? Ma soprattutto, quale legge divina impone alle democrazie evolute europee
di accettare la globalizzazione sfrenata
e selvaggia come unica e definitiva forma di organizzazione degli scambi
commerciali internazionali?
Questo tipo di globalizzazione,
che avvantaggia in maniera spropositata chi non rispetta le regole, chi
inquina, chi sfrutta i lavoratori, si può e si deve rimandare con forza al
mittente (FMI, WTO, Banca Mondiale, BIS), come già hanno fatto parecchi stati
del Sudamerica (Argentina, Ecuador, Venezuela, Bolivia). La conseguenza più
ovvia della passiva assuefazione è
stato invece il prevedibile, lento ma inarrestabile massacro della piccola e
media impresa italiana, che a seconda dei casi è stata inglobata nei grandi
gruppi industriali oppure, quando i costi di incorporazione o di gestione
risultavano troppi elevati, lasciata da sola in balia dei “mercati” in attesa che venisse travolta e costretta al fallimento.
Oggi come ieri, la piccola e media impresa italiana risulta un ostacolo per il progetto europeista di globalizzazione
sponsorizzato dai banchieri e dalle multinazionali (che spesso sono un unico
soggetto, suddiviso in un ginepraio di diramazioni, holdings, controllate, joint
venture, società off-shore, scatole
cinesi), iniziato da Kohl, Mitterand, Prodi e che Merkel, Monti, Hollande
sperano di portare a termine: una struttura
totalitaria compatta, che abbia il suo cuore finanziario nella BCE, nella Bundesbank, nelle banche
tedesche e francesi, la muscolatura produttiva nelle grandi corporazioni transfrontaliere che non hanno più identità o
appartenenza, fino ad arrivare alle sacche intestinali di manovalanza a buon mercato della periferia, passando per il centro nevralgico degli affari con sede
a Bruxelles. Niente più propaggini, apparati pubblici ridondanti, enti locali
battaglieri, imprese a gestione familiare, cani sciolti. Nessuno spazio per la democrazia. La contrattazione. I diritti umani.
Se è bastato un solo anno di crisi accompagnata da svalutazione dall’euro per far rialzare
la testa a quel che è rimasto della piccola e media impresa italiana capace di
esportare all’estero, significa che Mario Monti deve ancora lavorare parecchio
prima di distruggerla definitivamente. E significa soprattutto che la strada
intrapresa trenta anni fa dall’Italia di aggancio
alla moneta forte e subalternità al
vincolo esterno non era quella più adatta ad esaltare le
caratteristiche
produttive del nostro territorio. Gli italiani hanno bisogno di una
moneta
debole, più agile, flessibile, abbondante per riuscire a penetrare nei
mercati
internazionali, valorizzare le enormi risorse, investire nella
creatività e nell’innovazione, tenere in piedi il suo costoso ma
ineludibile stato sociale, contrastare le calamità naturali e il degrado
ambientale,
diventare un’avanguardia nel campo delle
energie rinnovabili, che per ovvie ragioni geografiche e climatiche
dovrebbero rappresentare un settore di traino dell’intera economia nazionale,
non un settore di nicchia o un terreno di conquista per spregiudicati
arrivisti, speculatori o dilettanti allo sbaraglio (si veda a proposito il piano energetico nazionale proposto
dall’idiota banchiere prestato alla politica Corrado Passera che va in tutt’altra direzione, privilegiando le trivellazioni in cerca di petrolio e
penalizzando per l’ennesima volta gli incentivi
alle energie rinnovabili: cosa dire? Servono altre parole per avere una
definizione più chiara di idiozia?).
Tutti questi progetti ed iniziative per diventare
operativi hanno bisogno di una stretta interazione
fra finanza pubblica e privata, senza troppi vincoli di politica monetaria
di stampo teutonico, perché non si può pretendere di rimettere in moto un paese
sperando solo nella fiducia dei “mercati”
privati o nell’arrivo dei capitali esteri, per il semplice fatto che non è
interesse dei “mercati” finanziare
attività che vadano al di là del breve o brevissimo termine e non è interesse
nostro chiedere gli investimenti esteri (quindi indebitarci) per progetti che possiamo
tranquillamente condurre in porto da soli. Per ripartire e recuperare la
competitività perduta in questi ultimi dieci anni di strazio, l’Italia ha
bisogno di una sua moneta e di ampia libertà di manovra nelle scelte di
politica economica. Ha bisogno della
lira. Punto. L’Europa tutta ha urgente necessità di ritornare ad una più corretta ed equilibrata gestione degli
scambi commerciali riprendendo ad una ad una tutte le monete nazionali
accantonate con troppa fretta e rivitalizzando quei normali rapporti di vicinanza
che per lungo tempo sono rimasti
ingessati e a senso unico (dalla Germania alla periferia, solo andata
senza ritorno) a causa del vincolo innaturale del cambio fisso prima e
della moneta
unica poi.
Questa opera di pulizia e redenzione non sarebbe come
prospettano molti un anacronistico ritorno al passato, una chiusura nel becero
nazionalismo, ma una semplice constatazione di un fatto puramente razionale, tecnico o se volete sociale che porta a
bocciare un progetto sbagliato, dozzinale, perché poggiato su ipotesi
sbagliate, grossolane, umanamente agghiaccianti. Una scelta politica avventata, che trascurando gli allarmi
dell’economia, ha finito poi per vivere soltanto sulla manipolazione dei dati economici, fino alla definitiva ribellione
di questi ultimi. Sono infatti i dati
economici a gridare vendetta, più che la disperazione della gente o le tensioni,
queste sì nazionalistiche, che puntualmente si stanno accendendo fra i popoli
europei che per 50 anni, dopo la fine della seconda guerra mondiale, erano
riusciti bene o male a vivere in pace e in armonia. Non sarà solo un caso che
dopo l’ingresso nell’euro nel 2002, l’Italia
non ha più registrato un surplus delle partite correnti con l’estero (vedi
grafico sotto). Questo è un dato, su cui un giorno qualcuno dei responsabili politici dello scempio (la
pseudo-sinistra italiana, il PD in
particolare, e in misura minore il PDL e l’UDC) dovrebbe rendere conto e
ragione ai cittadini italiani, in pubblica piazza (o meglio ancora in un’aula
di tribunale).
Un’ultima considerazione prima di concludere. Finora
abbiamo parlato solo di bilancia commerciale, esportazioni di beni e servizi,
ma abbiamo trascurato il conto
finanziario, ovvero il bilancio
delle attività e passività finanziarie da cui dipendono poi gli interessi
che paghiamo sul debito estero e i profitti che dobbiamo corrispondere agli
investitori stranieri. Una moneta
nazionale e una politica monetaria
autonoma consentirebbero non solo di procedere ad un’indispensabile detassazione sia dei cittadini che
delle imprese (ormai sappiamo che in un quadro di piena sovranità monetaria le tasse non servono per ripagare né le spese né i debiti pubblici) in vista di un
ulteriore recupero di competitività, ma ad orientare perfettamente il regime dei tassi di interesse.
Mantenendo un livello di tassi di
interesse bassi per tutto il tempo necessario, potremmo rimborsare o
rinnovare nel giro di pochi anni l’intero debito
estero cumulato (che a dispetto di tutto e a differenza degli altri paesi
della periferia europea è ancora gestibile, intorno al 30% del PIL, vedi grafico
sotto), anche in presenza di una forte svalutazione della nuova lira (bisognerebbe
vedere poi caso per caso, a secondo delle tipologie contrattuali adottate, quale
parte di debito estero potrebbe essere denominato in nuove lire e quale invece
dovrebbe essere denominato in una valuta internazionale). Questa conclusione
deriva dallo stesso surplus della
bilancia commerciale, che sospinto dalla svalutazione della lira escluderebbe, almeno inizialmente, la necessità
di tenere alti i tassi di interesse per attirare capitali esteri necessari a riequilibrare
eccessivi disavanzi nelle partite correnti. Si innescherebbe in pratica un
circolo virtuoso capace di annullare con i surplus commerciali gli effetti
nefasti di crescita degli interessi dovuti all’adozione dell’euro, che sono la
causa maggiore del nostro attuale
deficit nelle partite correnti.
Poi sapendo tutti questi “fatti” e conoscendo questi “dati”,
ognuno è libero di farsi rimbambire con i canti corali sulla tragedia greca o
le violente picchiate dei falchi tedeschi, rimanendo immobile in attesa del
gran finale. Ma la realtà dei “fatti”
non cambia. L’euro è una moneta
sbagliata, destinata a scomparire e prima o dopo, volenti o nolenti, noi dovremo tornare alla lira. Se lo
faremo prima, i costi umani e sociali saranno minori, perché gli indici
economici confermano che oggi siamo ancora in tempo per uscire dall’euro senza troppi traumi. Se lo faremo dopo invece,
quando il nostro tessuto produttivo interno sarà stato dilaniato e impoverito,
le condizioni saranno molto più sfavorevoli e servirà più tempo per
ripristinare una situazione di normalità e di equilibrio. Questo dice
l’economia, tutto il resto, le previsioni di Monti, le minacce di Draghi, le
carriole di Bersani, le preghiere rivolte alla Mecca dei sindacalisti sono solo
una farsa, una pantomima che serve a
coprire un’altra pagliacciata, molto più vile e insidiosa, andata in scena
più di trent’anni fa. Chi si diverte con poco si accomodi pure, ma poi non si
stupisca se un giorno si ritroverà con un cappio al collo e sull’orlo di un
baratro perché “ce lo chiede l’Europa!”.
TEMPESTA PERFETTA: RITORNO ALLA LIRA: LA BILANCIA COMMERCIALE ITALIAN...: