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di Damiano Fedeli su Panorama
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Le piante hanno una «testa
pensante» con la quale comunicano, prendono
decisioni, ricordano perfino. Alcuni
ricercatori italiani sono stati tra i primi a
scoprirlo.
La prossima volta che vi capiterà di
osservare un albero, o anche solo un cactus
della terrazza, certo li guarderete con occhio
diverso. Perché le piante, dalla quercia più
imponente al fiore più esile, hanno una «testa
pensante»: riflettono, si scambiano
informazioni o avvertimenti, prendono
decisioni. E il loro cervello segreto è nelle
radici.
Una verità che Charles Darwin aveva già
sospettato e che viene confermata dalla
scienza. Su ogni singola punta delle radici
(il nome è apice radicale) c'è un gruppo
di cellule che comunica usando
neurotrasmettitori, proprio come i nostri
neuroni; e queste cellule elaborano e
rispondono alle informazioni che arrivano qui
da tutta la pianta.
Ciascun apice è autonomo, ma può anche
coordinarsi con gli altri. Un vero e
proprio cervello diffuso il cui funzionamento
a rete ricorda quello di internet, e che
permette agli alberi non solo di comunicare,
ma persino di avere una memoria e una sorta di
autocoscienza.
La scoperta è di un gruppo di ricercatori
delle Università di Firenze e di Bonn e
rappresenta una svolta in ciò che finora si
sapeva sui vegetali. È nata persino una nuova
scienza, la neurobiologia vegetale, di
cui si è tenuto di recente a Firenze il primo
congresso internazionale.
Gli studiosi della nuova disciplina hanno dato
vita alla Society for plant neurobiology
e a una rivista, Plant signaling &
behavior (comunicazione e comportamento
delle piante). Nel capoluogo toscano sta poi
per nascere il primo laboratorio al mondo per
questa materia, destinato a diventarne centro
di riferimento.
«Le ricerche degli ultimi quattro anni hanno
portato prove che le piante si comportano come
esseri intelligenti. Il rischio per noi è
stato che si equivocasse una ricerca
scientifica solida con credenze popolari che
hanno diffuso una serie incredibile di
sciocchezze» avverte Stefano Mancuso, del
dipartimento di ortoflorofrutticoltura
dell'Università di Firenze.
«La neurobiologia vegetale è nata qui e
all'Università di Bonn, con il team di
Frantisek Baluska, dell'Istituto di botanica
molecolare e cellulare. Abbiamo scoperto che in
ciascun apice radicale c'è una zona, detta di
transizione, le cui cellule hanno
caratteristiche neuronali. Mettono cioè in
atto una trasmissione sinaptica identica a
quella dei tessuti neurali animali».
L'impulso scorre nel cervello della pianta
attraverso molecole, i neurotrasmettitori,
molti dei quali sono gli stessi con cui
comunicano i neuroni animali. «In questi
apici troviamo glutammato, glicina,
sinaptotagmina, gaba, acetilcolina. Ci siamo
chiesti: che cosa ci stanno a fare, se le
piante non hanno una trasmissione sinaptica?»
racconta il ricercatore. Se era noto che i
vegetali producono sostanze attive
neurologicamente, come caffeina, teina o
cannabina, la scoperta di neurotrasmettitori
ha evidenziato l'attività neurale.
Anche il ruolo del più importante ormone
vegetale finora conosciuto, l'auxina,
è stato ridefinito. Baluska: «Permette alla
pianta di accrescersi o di emettere nuove
radici ed è un neurotrasmettitore specifico
dei vegetali, molto simile alle nostre
melatonina o serotonina».
«È tempo di dare il benvenuto alle piante
nel novero degli organismi intelligenti»
afferma Peter Barlow, della School of
biological science dell'Università di Bonn.
Una prova di «intelligenza vegetale», del
resto, è il comportamento in caso di
difficoltà. Le piante agiscono infatti con
lo stesso sistema prova-errore degli animali:
davanti a un problema procedono per tentativi
fino a trovare la soluzione ottimale di cui,
poi, si ricordano quando si presenta una
situazione simile.
Se per esempio manca acqua, aumentano lo
spessore dell'epidermide, ne chiudono le
aperture, gli stomi, evitando la
traspirazione. Riducono poi il numero di
foglie aumentando quello delle radici per
esplorare zone vicine.
Viene da chiedersi, però, se non si tratti di
stimoli puramente meccanici. «No, si tratta
di un comportamento intelligente» sostiene
Mancuso. «Se le radici dovessero solo trovare
acqua, potrebbe essere automatico. Ma devono
anche cercare ossigeno, nutrienti minerali,
crescere secondo il senso della gravità,
evitare attacchi.
E valutare quindi contemporaneamente le
comunicazioni chimiche che le piante si
scambiano attraverso l'aria e la terra:
messaggi sullo stato di salute o sui
parassiti. Se sono attaccate da patogeni,
comunicano alle simili della stessa specie con
gas e sostanze volatili che c'è un pericolo,
invitandole ad aumentare le difese
immunitarie. I vegetali, così, dimostrano di
essere anche sociali».
Sociali ma non necessariamente socievoli.
Essendo esseri territoriali, le piante si
mandano segnali del tipo «qui ci sono io»,
emettendo sostanze disciolte nel terreno. Le
radici intercettano le comunicazioni,
capiscono se hanno vicino una pianta della
stessa specie, e in tal caso la reazione è
blanda, oppure se è un'avversaria, e allora
diventano aggressive fino a lanciare sostanze
velenose.
Tenendo
conto di tutti questi stimoli l'apice decide
cosa fare. Decisione che viene anche dal
ricordo: una pianta che ha già affrontato un
certo problema è in grado di rispondere in
modo più efficiente. «Questa
caratteristica» ricorda Mancuso «era nota:
si parlava di acclimatazione. Per esempio,
l'olivo a ottobre-novembre si modifica per
affrontare l'inverno. Finora lo si spiegava
come una risposta meccanica alle variazioni
ambientali. In realtà la pianta decide di
farlo quando sente le condizioni che ha
memorizzato».
Le piante hanno anche una certa coscienza
di sé. Diversi esperimenti hanno mostrato
che, prendendone due geneticamente identiche,
due cloni, e mettendole accanto, quella che è
messa in ombra dall'altra si muove alla
ricerca di luce. Se invece si accorge di
essere essa stessa a farsi ombra con un ramo,
nulla accade.
Ma tutte le piante sono ugualmente dotate? Un
filo d'erba ha lo stesso Q.I. di una quercia
centenaria? «È possibile che ci siano piante
più intelligenti, ma ancora non lo sappiamo»
riconosce Mancuso. «Per misurare il quoziente
intellettivo di un ratto lo si mette in un
labirinto e si guarda quanto impiega ad
arrivare al cibo.
Si è visto che una radice di mais inserita in
un labirinto la cui meta era dell'azoto ci
arrivava senza sbagliare, trovando la via più
corta: in questo caso si tratta di organi di
senso più raffinati».
«Siamo appena all'inizio di una rivoluzione
nel nostro modo di pensare alle piante»
commenta Dieter Volkmann, del gruppo di Bonn. Questi
studi, oltre a rivoluzionare le conoscenze
sulle piante, hanno ricadute anche sull'uomo.
I neuroni verdi possono fungere da modello per
sperimentare terapie contro malattie
degenerative del sistema nervoso, come il
morbo di Parkinson e di Alzheimer.
«Gli animali vengono utilizzati, e con
successo, in questo tipo di studi. Usare le
piante non è però un regresso nella scala
evolutiva» dice Mancuso. «Una cellula
neuronale vegetale è sì un modello
semplificato di neurone, ma proprio per questo
consente di individuarne più facilmente i
meccanismi.
Non ci sono problemi di vivisezione e le
cellule delle piante sono facilmente
trasformabili geneticamente, caratteristiche
che potrebbero farne un materiale da
laboratorio valido dalla ricerca di base alle
applicazioni terapeutiche.
Il Medical research council di Cambridge, il
laboratorio di biologia molecolare fucina di
premi Nobel, collabora con noi in questo campo».
Non è finita: i neuroni delle piante
potrebbero presto diventare un modello anche
per gli studi sull'intelligenza artificiale.
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